La salute mentale
Il divano di Freud (Freud Museum, London). Fonte: commons.wikimedia |
La
professione di psicoterapeuta mi porta a considerare la salute mentale da un
punto di vista psicoanalitico e la passione per la storia della psicoanalisi mi
spinge a partire da Freud. Infine, l’abitudine alla ricerca mi chiama a interrogare
la veridicità delle informazioni che raccolgo, senza darle per scontate.
Ora,
è noto che secondo Freud la salute mentale si definirebbe come capacità di
amare (lieben) e lavorare (arbeiten). Meno noto è probabilmente
il fatto che non esiste alcun passaggio nei suoi scritti in cui egli lo affermi
espressamente. La storia ha origine con Erik Erikson, che scrive in Childhood
and Society:
“Freud was once asked what he thought a normal person should be able to do well. The questioner probably expected a complicated answer. But Freud, in the curt way of his old days, is reported to have said: 'Lieben und arbeiten' (to love and to work)” (Erikson, 1963, 264-5).
La
questione è stata riconosciuta nel 2006 dall’americano Ralph Keyes nel volume TheQuote Verifier. Who said What, Where and Wenn: è lui a
indicare come vera fonte della definizione freudiana la testimonianza o meglio,
il “sentito dire” di Erikson (Keyes, 2006, 135-6). Egli prosegue affermando che
secondo alcuni psicoanalisti la frase sarebbe in realtà da attribuire a un
allievo di Freud, Theodor Reik (1888-1969), ma nemmeno nei
suoi scritti Keyes è riuscito a ritrovarla.
Si
tratterebbe dunque di una leggenda, come molte ce ne sono nella storia della
psicoanalisi e in particolare di Freud (Lualdi, 2022a). Eppure, come
spesso accade, contiene una mezza verità.
Che
infatti per Freud lavoro e amore siano componenti fondamentali della salute
mentale lo si può ricavare da alcuni passaggi delle sue opere. Scrive per
esempio nel 1914 a proposito dell’amore:
“prima o poi bisogna ben incominciare ad amare per non ammalarsi” (Freud, 1914a, 455).
E quell’“amare” è nell’originale proprio il lieben che lo stesso Erikson riporta in tedesco in Childhood and Society (Freud, 1914b, 151).
Vi
è un secondo passaggio di Freud che, pur non citando direttamente “amare” (lieben)
e “lavorare” (arabeiten), fa al caso nostro:
“Poiché la salute e la malattia non sono distinte nella loro essenza, ma solo separate da un confine quantitativo determinabile nella pratica, non ci si prefiggerà come fine del trattamento altro che la guarigione pratica del malato, il ricupero delle sue capacità di prestazioni e di godimento (Leistung- und Genußfähigkeit)” (Freud, 1903, 411; Freud, 1904 [1903], 8).
E del resto va ammesso che la leggendaria affermazione suona
molto freudiana, considerato che come l’amore (la capacità di godimento) rimanda
direttamente alla pulsione libidica, così il lavoro (la capacità di
prestazioni) rimanda a quel grandioso meccanismo di trasformazione pulsionale
(e in particolare della pulsione aggressiva) che è la sublimazione. La salute
mentale e i suoi difetti si giocano dunque nella relazione: relazione con gli
specifici individui che si amano, sessualmente o in modo sublimato, e relazione
con gli altri in generale, ossia nella società, attraverso il lavoro e la
sublimazione pulsionale.
Ma c’è ancora
un’altra parte di verità nella leggenda. Infatti, se è vero che non fu Sigmund
Freud a pronunciare la frase, fu sua figlia Anna a scriverla in un lungo e
fondamentale articolo apparso in inglese nel 1945 sul primo numero della
neonata rivista The Psychoanalytic Study of the Child:
“An adult neurosis is not only assessed subjectively according to suffering, but objectively according to the extent in which it damages the two main capacities of the individual: the capacity to lead a normal love and sexual life and the capacity of work” (Freud A., 1945, 135).
Ecco comparire
proprio le stesse parole di Erikson, love e work! Per giunta la
frase di Anna Freud ha il pregio di scorporare espressamente le due componenti
dell’amore, quello più direttamente ancorato alla pulsione (sexual life)
e quello sublimato (love).
Siamo posti in tal
modo di fronte a un apparente paradosso: se infatti la pulsione è “un concetto
limite tra lo psichico e il somatico” (Freud, 1915, 17), fondare su di essa la
definizione di salute mentale significa ammettere che parlare di questa
significa necessariamente parlare anche di salute del corpo.
Il punto non è qui
indagare le possibili ripercussioni filosofiche di una posizione che offre una
prospettiva altra rispetto al dualismo cartesiano di res cogitans e res
extensa (indagine che non sarei in grado di portare avanti). Si tratta
piuttosto di prendere atto di come il concetto di pulsione, così discusso e
apparentemente superato anche secondo certe correnti psicoanalitiche, ci
costringa a interrogarci costantemente su quell’unità mente-corpo che buona
parte della medicina occidentale ancor oggi fatica a riconoscere, preferendo
concentrandosi sul corpo come entità a sé, o peggio ancora, su un suo singolo
organo, apparato, sistema. Non si dimentichino le voci di certi pionieri della
psicoanalisi (questo richiamare alla memoria è uno dei compiti degli storici della
psicoanalisi): Georg Groddeck con ragione, ci ricorda Simmel, non vedeva di
buon occhio la distinzione tra psicoterapia e medicina organica (Simmel,1926); e nel 1924 Sándor Ferenczi e Otto Rank mettevano in luce il fenomeno
negativo del progressivo frammentarsi e specializzarsi del sapere medico,
proponendo come “antidoto” la psicoanalisi quale scienza dell’uomo nel suo
complesso (Ferenczi, Rank, 1924, 116).
In questa idea di essere
umano che prescinde dalle categorie dicotomiche di psiche e corpo, anima e
carne, sta a mio parere un pregio della psicoanalisi e degli approcci a essa
imparentati: Rank lo porterà avanti nella svolta esistenzialista delle sue
teorie, una volta sganciatosi definitivamente nel 1926 da Freud (Lualdi, 2016a,
212), né si dimentichi Ludwig Binswanger, figura a cavallo tra psicoanalisi ed
esistenzialismo, che metterà progressivamente al centro della propria
concezione di essere umano e di terapia i concetti dell’esserci nel mondo e di
meta o fine: dunque “divenire” (Lualdi, 2015, 252-3). In seno alla psicoanalisi
sarà Bion a concepire l’analisi come un divenire: “divenire O”, realizzare se
stessi è la possibilità, a volte pericolosa ma sempre evolutiva, che offre la
psicoanalisi (Bion, 1965, 164). Per dirla con un altro autore inglese, si
tratta di realizzare il proprio Vero Sé (Winnicott, 1960, 151-2), recuperando o
costruendo ex novo quella capacità di gioco che nell’adulto si manifesta
come passione. Eccoci così tornati all’originaria definizione “freudiana”: infatti
è solo la passione che da un lato può schiudere le porte del lavoro come vera
sublimazione gratificante e dall’altro consentire l’accesso alla sessualità
matura, il gioco per eccellenza riservato all’adulto.
Ma è un ritorno
solo apparente, poiché molto cambia quanto a ricadute sulla terapia. Si passa
infatti da una concezione pressoché standardizzata e normativa della cura, tesa
a un’ideale astratto e unico di adulto sano che ama (ossia ha raggiunto la
freudiana fase genitale) e lavora, a una cura come relazione di accoglimento
dell’altro in quanto tale, nel rispetto del suo progetto di vita, che può
dirigersi tanto verso la genitalità quanto verso mete diverse. Alcuni rapidi
esempi in proposito: la personalità schizoide e quella schizotipica, che almeno
in alcuni casi devono venire a patti con un’esistenza “divergente” dalla norma,
con l’impossibilità di colmare la distanza che le separa dagli altri, piuttosto
che costringersi a ciò che sentono come una rinuncia a se stesse in nome di
relazioni (genitali) che creano in loro solo disagio. Non diversamente è stato
a lungo per gli omosessuali, la cui terapia fortunatamente non può essere più
concepita come “normalizzazione” del desiderio sessuale, ma persegue il
raggiungimento di un’identità sessuale stabile (se questa è la domanda del
paziente) o che nemmeno tocca il tema sessuale (se altre sono le domande
portate in terapia) (Lualdi, 2016b). In altre parole, non il punto non è
portare l’analizzando a far proprio il modello di salute mentale dell’analista.
Piuttosto è l’analista che deve fare spazio dentro di sé per accogliere il Vero
Sé dell’altro come primo passo per la sua realizzazione. In questo modo
l’analista al lavoro (Arbeit) dimostra amore (Liebe)
(nella forma sublimata del rispetto e dell’accoglienza) per l’altro: è la
riprova della sua salute mentale, necessaria per prendersi cura del paziente.
Ciò vale a mio
parere ancor più nella fase storica che attraversiamo, dove le possibilità di
realizzazione individuale a lungo sono state messe a dura prova dalle
limitazioni imposte dalla pandemia, come ora lo sono dalla crisi globale ed
energetica conseguente alla guerra in Ucraina. La stanza d’analisi può divenire
in alcuni casi uno dei pochi spazi capaci di garantire l’accoglienza del Vero sé
di chi si affida a noi.
Bibliografia
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Lualdi M. M.
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Simmel E. (1926), Georg Groddeck, per il sessantesimo compleanno. In Lualdi M. M. (2022b), Georg Groddeck Parte VI: Buon compleanno Mr. Groddeck! pp. 6-14.
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