Il carteggio Groddeck-Ferenczi: perché e come tradurlo
“Per
questa opera non necessitano
soltanto
arte e scienza,
ma
anche pazienza”
(Goethe,
Faust, Parte Prima, Cucina della strega)
“Nicht Kunst und Wissenschaft allein,
Geduld will bei dem Werke sein”
(Goethe, Faust, Erster Teil, Hexenküche),
Buongiorno
a tutte e a tutti. Perdonate i limiti della mia presentazione ma le mie
competenze nel parlare in tedesco non vanno di pari passo con la mia esperienza
di traduzione.
Ringrazio
la Georg Groddeck-Gesellschaft, in particolare Beate Schuh e Michael Giefer per
l’invito a essere qui oggi: un vero onore, che mi offre l’occasione di
conoscere di persona coloro che mi hanno tanto aiutato nella mia recente
ricerca su Groddeck e sulla sua nota frase “Sono un analista selvaggio” (Groddeck,
Simmel, Lualdi, 2022).
Oggi
però il mio tema non sarà quella ricerca, ma l’inattesa e gradita proposta di
Beate Schuh e Michael Giefer che ne è seguita: quella di tradurre in italiano l’edizione
completa del carteggio Groddeck-Ferenczi, uscita nel 2006.
Prima,
qualche riflessione sulla traduzione in ambito psicoanalitico, più in
particolare di storia della psicoanalisi: un’attività che, non meno della
psicoanalisi stessa, richiede non “soltanto arte e scienza, ma anche pazienza”
(Freud, 1901, 312).
Perché tradurre
Freud
conosceva e parlava diverse lingue (Anzieu, 1986); egli stesso tradusse sia
dall’inglese (John Stuart Mill) sia dal francese (Charcot e, nel 1938, Topsy,
il piccolo libro di Marie Bonaparte) (Jones, 1953, 55 e n. h; 160, 186). Era anche
ben consapevole di quanto fosse importante che le sue opere venissero tradotte (Jones,
1957, 9-10; Freud, 2016).
Per parte sua, Groddeck poneva
implicitamente il problema della traduzione parlando in diverse occasioni di “lingue
dell’inconscio” e della necessità che l’analista non solo le capisse ma
addirittura le parlasse consapevolmente: per esempio nei suoi interventi ai
congressi psicoanalitici internazionali di Berlino, nel 1922, e di Bad Homburg,
nel 1925 (Groddeck, 1922, 492; Groddeck, 1925, 157 e 161) e ancora nel 1928,
come ricorda Michael Giefer nella sua introduzione al carteggio Groddeck-Ferenczi:
“Il medico non deve solo comprendere i linguaggi dell’Es, deve parlarli egli stesso,
parlarli scientemente. Allora si svilupperà in lui anche la capacità di parlare
al malato nel linguaggio dell’inconscio…” (Groddeck, Ferenczi, 2006, 24). In realtà, alla luce dei progressi della
linguistica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, possiamo dire che la
traduzione interviene ogni volta che riceviamo un messaggio dall’altro, anche
quando parla la nostra lingua, poiché in un certo senso la parla a modo suo (Jakobson,
1959; Paz, 1970; Steiner, 1975). A ciò si aggiunge per l’analista una sorta di
squilibrio comunicativo poiché perde, almeno in parte, il diritto di attendersi
che l’altro traduca la propria “lingua”, mentre ha il dovere di accostarsi il
più possibile alla “lingua altrui”.
Quando
la traduzione manca, la lingua diventa una barriera (Steiner, 1975) che
facilmente fa dimenticare, per dirla con Groddeck, che “anche oltre le montagne
vive gente” (“hinter den Bergen wohnen auch Leute”) (Groddeck, 1925, 150). Proprio
con queste poco onorevoli finalità, almeno secondo Masson, nel 1932 Ernest Jones
lasciò che si pubblicasse l’importante saggio di Ferenczi Confusione di lingue
tra gli adulti e il bambino in tedesco: già allora infatti non era più la lingua
maggiormente diffusa tra gli psicoanalisti ed egli sperava in tal modo di non
far giungere quel prezioso lavoro… “oltre le montagne” (Masson, 1984, 140-2).
Si
direbbe, dunque, che gli analisti siano chiamati a portare particolare
attenzione alla traduzione, soprattutto considerando che per quelli che non
conoscono il tedesco si tratta dell’unico mezzo per accedere ai testi
fondamentali della disciplina. Eppure, la mia personale biblioteca psicoanalitica,
così come il panorama editoriale italiano attuale, mi dicono tutt’altro. La
maggior parte delle traduzioni delle opere psicoanalitiche dei grandi pionieri risale
a circa trenta-quarant’anni fa e oggi si trova solo tra i libri usati (Freud a
parte, naturalmente).
Ecco
alcuni esempi: di Groddeck, credo di avere un’edizione di tutto quello che è
stato tradotto in italiano: si va da Il libro dell’Es, pubblicato da noi
nel 1966, fino al 2005, con Conferenze psicoanalitiche (che però è una
raccolta parziale: si ferma al 23 maggio 1917). Dopo tale data, si hanno solo ristampe,
in particolare de Il libro dell’Es (Das Buch vom Es) e della
raccolta di saggi Il linguaggio dell’inconscio (prima e unica edizione:
1969). Un’eccezione: nel 2021 è stata pubblicata una nuova edizione dell’opera
minore e preanalitica del 1902 Questione di donna (Ein Frauenproblem),
già uscita in italiano nel 1980.
Il
traduttore e storico della psicoanalisi Francesco Marchioro, a fine anni ’70 poteva
trovare un editore disposto ad affrontare la traduzione dell’Opera Omnia
di Otto Rank. Nel 2001, solo a fatica ha trovato un editore disposto a
pubblicare la traduzione di un importante documento storico, la biografia di Freud
scritta dal figlio Martin e pubblicata nel 1957: Glory Reflected (Freud
M., 1957).
A ciò si accompagna la scarsità di solidi
studi storiografici: uno dei più prestigiosi, titolato Storia della psicoanalisi,
fu scritto nel 1986 da Silvia Vegetti Finzi e resta tuttora un validissimo
punto di riferimento.
Infine, e non poteva essere altrimenti,
le riflessioni psicoanalitiche su traduzione, bilinguismo ecc. sono scarse: posso
segnalare solo il volume La Babele dell’inconscio a cura di Mehler
Jacqueline Amati, Simona Argentieri e Jorge Canestri, del 1990, la cui seconda
e ultima edizione risale al 2003 (20 anni fa…).
In
realtà, questo non è un problema solo italiano: in Francia, nel 1993 Alain de
Mijolla doveva chiudere dopo soli sei numeri la Revue Internationale d’Histoire
de la Psychanalyse poiché non aveva lettori sufficienti a sostenerne la pubblicazione
(de Mijolla, 1993, 7-8).
Opposta
pare invece la situazione, per esempio, in Cile, dove la “Asociación
Latinoamericana Sándor Ferenczi”, in particolare grazie a Juan Vicente Gallardo
Cuneo, dedica molte energie alla traduzione di lavori di e su Ferenczi e Groddeck.
Perché
dunque certi gruppi di analisti sono così poco interessati a conoscere la
storia della disciplina cui dedicano la vita, le radici della loro identità
professionale? La psicoanalisi non si basa forse anche sulla scoperta dell’importanza
dell’elemento storico ed evolutivo? In parte la risposta va senz’altro cercata in
questioni di rapporti ed equilibri tra il sistema letterario e culturale interno
e quelli stranieri (Even-Zohar, 1978), ma in parte resta domanda di stretta
pertinenza psicoanalitica, tanto più che, se pensiamo a quanto sia cambiato il
contesto storico- culturale in cui scrivevano Freud e i suoi primi allievi, ci
rendiamo subito conto che senza il lavoro degli storici e dei traduttori, sarà
sempre più difficile cogliere cosa davvero intendessero dire quei pionieri,
perché si sarà inevitabilmente portati ad attribuir loro il nostro modo di
pensare (Lotman, 1964; Borgogno, 2001, 47): un vero trionfo della proiezione!
Ecco
perché è importante tradurre e ritradurre (ogni traduzione essendo temporanea;
Humboldt, 1816) testi e documenti di storia della psicoanalisi: ben venga
dunque l’opportunità di lavorare al carteggio Groddeck-Ferenczi. Ma come?
Come tradurre: il carteggio Groddeck-Ferenczi
Nel
1985 usciva in Italia la prima (e finora unica) edizione del carteggio Groddeck-Ferenczi
(Ferenczi, Groddeck, 1985). Due i problemi principali: anzitutto l’edizione,
che per brevità chiamerò qui ITA, non è completa.
Il
secondo problema è che si tratta di una traduzione eseguita non sull’originale
tedesco, ma sulla traduzione francese curata tre anni prima da Judith Dupont, cui
mi riferirò qui come FRA. Si possono ben immaginare i rischi di questo passaggio
per una “lingua intermedia”, rischi che peraltro nel mio lavoro non ho potuto eliminare
del tutto e che, come chiarirò, sono da considerare almeno in parte
insormontabili.
Rispetto
a FRA, la recente edizione tedesca del carteggio offre un punto di partenza decisamente
migliore per una nuova traduzione italiana: è completo, curato filologicamente (sono
dunque riportati i vari errori, le correzioni, ecc. presenti nei manoscritti) e
arricchito di nuovo materiale e di note esplicative: tutti elementi che aiutano
il lettore a contestualizzare ciò che legge e a farsene un’idea critica.
Sono
anche aspetti in sintonia con il mio modo di procedere: nel complesso, cerco di
restare il più aderente possibile all’originale, rispettando, nei limiti della
grammatica italiana, anche l’ordine delle parole e dei complementi, nonché
eventuali ripetizioni (Meschonnic, 1973; Osimo, 2011). Questo determina a volte
un italiano non particolarmente scorrevole, ma non ritengo dovere del
traduttore ritoccare il testo perché suoni meglio all’orecchio del lettore. Non
si tratta solo di conservare la distanza temporale e culturale che ci separa dai
due corrispondenti di un secolo fa (Schleiermacher,
1813; Humboldt, 1816; Goethe, 1819; Benjamin, 1965; Meschonnic, 1973).
Il vero
punto è mantenere una posizione di umiltà e di profondo rispetto per testi che
non nacquero per essere pubblicati e tantomeno per essere letti da altri che
dai loro destinatari: tutti noi siamo estranei ad essi non solo per tempo e
spazio (io anche per lingua!), ma anche e soprattutto perché originariamente e
fondamentalmente esclusi dal diritto di leggerli.
Si
tratta, a mio parere, di uscire dall’orbita narcisistica e rendersi conto che,
poiché non tutto quello con cui si entra in relazione esiste in funzione dei
nostri bisogni o desideri, è un gesto molto arrogante ritoccare la parola di
Groddeck e di Ferenczi secondo il nostro personale gusto estetico.
Queste
considerazioni, che potremmo definire di minima psicologia della traduzione, sono
raramente tenute in conto dagli studi specialistici sulla traduzione. Ne ho
trovati precursori in Schleiermacher, che si riferisce però ai sacrifici e alle
rinunce del traduttore nei confronti del lettore (Schleiermacher, 1813) e non a
quelli di entrambi rispetto al testo tradotto; Paz, poeta e saggista, parla
dell’“egotismo” come di un grande ostacolo alla traduzione (Paz, 1970) e Meschonnic,
altro poeta, definisce la traduzione come un processo “trans-narcisistico”
(Meschonnic, 1973).
Con questi
presupposti, i miei interventi diretti sul testo mirano sostanzialmente a
evitare gli errori di traduzione, almeno i più grossolani. Tutto il resto
avviene a latere, ossia nella prefazione o nella postfazione ma,
soprattutto, nelle abbondanti note a piè pagina, le “NdT”, in cui cerco anzitutto
di aiutare il lettore a contestualizzare ciò che legge, offrendogli
informazioni aggiuntive (dettagli storici, biografici, bibliografici). In altre
note chiarisco alcune mie scelte traduttive e, nel caso intraveda qualche
ambiguità, offro una seconda opzione traduttiva. Credo che nessun testo sia
privo di ombre (che corrispondono alle frange di ambiguità di ogni lingua
naturale; Paz, 1970) e desidero che il lettore ne sia consapevole: per questo
gli consegno la mia traduzione ma anche, per quanto posso, gli strumenti per
decidere se accettarla o rivederla, lasciando a lui l’ultima parola e facendolo
diventare in qualche modo un mio interlocutore, un lettore attivo.
In realtà,
nel caso del carteggio Groddeck-Ferenczi, questa inevitabile quota di ambiguità
si trasforma quasi subito in una più complessa “confusione di lingue”, da un
lato inerente al testo stesso e al mio dialogo con esso, dall’altro legata alla
necessità di dialogare con altre due voci, ITA e FRA, al fine di offrire al
lettore un’edizione realmente critica.
Il
dialogo con il testo tedesco è il nocciolo della traduzione e dà forma a quello
italiano. Ma già qui la situazione linguistica rivela alcune particolarità: è infatti
troppo semplicistico affermare che lavoro sui testi in lingua originale.
Per
prima cosa, il volume tedesco contiene brani e testi che sono traduzioni dall’ungherese:
ad esempio le lettere di Frygies Kovács alla moglie. In questi casi, se conoscessi l’ungherese potrei davvero fare una traduzione
dalla lingua originale (anche se non sarebbe più, a rigore, la traduzione del vero
e proprio volume tedesco per come realizzato da Giefer…). Ma non conosco tale lingua
e non mi resta che chiarire al lettore il mio limite.
In
secondo luogo, come segnala Giefer nell’introduzione, Ferenczi, Gizella e sua figlia
non scrivono nella loro lingua madre e alcuni dei loro errori non sono che il
segno di una non perfetta padronanza del tedesco. Lo trovo un aspetto fondamentale,
poiché significa che approcciando le loro lettere siamo in presenza di un materiale
che è già in partenza traduzione, benché di testi solo “virtuali”, in quanto confinati
nelle menti degli autori. Questo è il punto in cui, nel tradurre in italiano, il
tedesco passa da lingua originale a lingua intermedia dalla quale è concretamente
impossibile non transitare.
Il
lettore va avvertito, pena un nuovo trionfo della proiezione, che individuare
allusioni nelle lettere di Ferenczi o interpretare suoi errori come lapsus sono
operazioni da fare con maggior cautela rispetto alle lettere di Groddeck. Al
lettore tedesco ciò può apparire scontato, soprattutto perché Giefer stesso mette
in guardia da simili pericoli, ma il lettore italiano facilmente non ne ha la
minima consapevolezza: a leggere i lavori scientifici di Ferenczi (anche in
originale), vi si trova una prosa pulita e scorrevole che non fa sospettare
incertezze sull’uso del tedesco da parte dell’autore.
Come
dicevo, al dialogo con il testo tedesco la mia traduzione ha il piacere e il
dovere di aggiungere quello con ITA e FRA: nei punti in cui il mio testo differisce
da ITA, verifico anche FRA. Devo infatti capire se il problema è una
discrepanza tra me e FRA o tra ITA e FRA e renderne conto al lettore, offrendogli
non solo una giustificazione della mia scelta traduttiva, ma anche quella alternativa,
lasciandogli anche in questo caso la possibilità di operare una scelta.
Per quanto
riguarda le annesse lettere di Frygies Kovács alla moglie, la situazione è ancora
diversa: in questo caso, nei passaggi in cui il mio testo differisce da ITA, il
raffronto fondamentale è quello tra FRA e il testo tedesco proposto da Giefer, poiché
sono queste le due traduzioni fatte direttamente sull’originale ungherese. Ed è
interessante osservare come essi differiscano in diversi punti.
Vorrei
ora dare pochi esempi di quanto ho finora detto:
1) Il
25 febbraio 1927 Ferenczi scrive a Groddeck:
“Wien-Budapest, die noch immer nicht ganz entschieden ist, läßt die ruhige Stimmung nicht ganz aufkommen. Auch die soziale und politische Situation ist bei uns noch immer nicht ganz konsolidiert” (Groddeck, Ferenczi, 2006, 145) [Vienna-Budapest, che è ancor sempre non del tutto decisa, fa sì che non si imponga del tutto l’umore sereno. Anche la situazione sociale e politica da noi è ancor sempre non del tutto consolidata].
2)
Ogni volta che Ferenczi parla di sé e della moglie lascia sempre a questa la
precedenza e scrive “meine Frau und ich”. Credo sia una forma di cortesia o che
comunque veicoli l’attenzione di Ferenczi verso sua moglie. FRA conserva l’ordine
e così ho fatto anche io. ITA invece inverte regolarmente e inspiegabilmente (“io
e mia moglie”, ossia: “Ich und meine Frau”), con il risultato che il Ferenczi “italiano”
sembra un poco meno elegante.
3) Un
altro passaggio molto interessante è il saluto della lettera di Ferenczi del 28
ottobre 1929:
Qui
c’è un elemento di allitterazione inevitabilmente perso in traduzione, che,
anticipato dalla “t” di “mit”, passa da Mund a Hand e si prolunga
nel successivo gruppo implicito “u[nd]”. Quello che però il traduttore può
ben conservare è la presenza (meglio ancora: la priorità) dei baci sulla bocca.
Sarà forse per una diversa lettura dell’originale o per un certo qual pudore, ma
in FRA e in ITA questi baci scompaiono e si ha: “Avec bouche, mains et baisers”
(analogo l’italiano). Ossia “Mit Mund, Hände und Küßen”: “Hand” è passato al
plurale, l’aggettivo “sonstigen” è scomparso e soprattutto i baci non hanno più
nulla a che fare con bocca e mani.
Il
saluto in tedesco di Ferenczi ha così un effetto ben diverso dalla sua
traduzione. Il primo ci può scuotere e ci ricorda quanto il contesto culturale
sia cambiato nel corso di un secolo e con esso il significato dei vari tipi di bacio.
Ma la traduzione è ancor più sconvolgente: infatti, cosa può mai significare
inviare come saluto parti del corpo quali bocca e mani? Inutile dire che ho restituito
al testo i baci sulla bocca e sollecitato il mio lettore a porsi qualche domanda.
4) Il lettore di FRA e ITA dovrebbe rimanere perplesso anche di fronte a quest’altro passaggio, tratto dalla nota lettera del giorno di Natale del 1921:
“Die Folge war, daß ich ihm in Palermo, wo er die berühmte Paranoia-Arbeit (Schreber) mit mir gemeinsam machen wollte, in einer plötzlichen Aufwallung von Rebellion, gleich am ersten Arbeits-Abend, als er mir etwas diktieren wollte, aufsprang und erklärte, das sei doch kein gemeinsames Arbeiten, wenn er mir einfach diktiert. »So sind Sie also?« – sagte er erstaunt. »Sie wollen offenbar das Ganze nehmen?« Sprachs, und arbeitete von nun an jeden Abend allein, mir aber blieb nur das Nachsehen – die Bitterkeit schnürte mir die Kehle zu” (Groddeck, Ferenczi, 2006, 53). [La conseguenza fu che a Palermo, dove voleva fare con me il noto lavoro sulla paranoia (Schreber), in un improvviso impeto di ribellione già la prima sera di lavoro, quando volle dettarmi qualcosa, saltai su affermando che quello non era certo lavorare insieme, se egli semlicemente mi dettava. “È così dunque Lei?” – disse stupefatto. “Vuole evidentemente prendersi il tutto?” Lo disse e da allora in avanti lavorò ogni sera da solo, mentre a me non rimaneva che passarci sopra – l’amarezza mi serrava la gola.]
Il problema sorge con “Nachsehen”, che
FRA traduce con “travail de correction” (etwa: “Korrektursarbeit”). Ma che
correzioni potrebbe fare Ferenczi su un testo in fieri di Freud? Refusi?
Sì, se avesse tra le mani una bozza di stampa, cosa che non è. Correzioni di contenuto?
Ferenczi ne sarebbe allora stato felice e non avrebbe certo provato “amarezza”
(“Bitterkeit”). Il punto è che “Nachsehen” va qui inteso in senso diverso, più
o meno come (e cito da una comunicazione personale di Michael Giefer) “mostrare
comprensione per il comportamento altrui, mettendo da parte i propri desideri”.
Da qui la resa “passarci sopra”.
Devo ammettere che lavoro in condizioni assai più favorevoli
rispetto a quarant’anni fa, poiché grazie a internet ho a disposizione strumenti
formidabili: dalla consultazione online di vecchi volumi e riviste (ad es.
archive.org), ai vari dizionari, tra cui il prodigioso portale woerterbuchnetz.de,
siti sui modi di dire (per es. redensarten-index.de)
ecc.
5) Così so che quando Ferenczi
scrive a Groddeck che una sua domestica è giunta a casa sua “als Unschuld aus
dem Lande”, non sta affermando, come intendono FRA e ITA, che ella arrivava concretamente
dalla campagna, ma sta usando un modo di dire. Assai più rischioso è invece
affermare che in ciò vi sia una qualche allusione alla nota Unschuldige della
letteratura tedesca, la Margarethe del Faust. Più facile invece cogliere le allusioni
goethiane nelle lettere di Groddeck, come nel passaggio della lettera del 22.11.1922:
“Hoffentlich hat er das Lachen nicht verlernt” [Speriamo
non abbia disimparato a ridere].
6) infine, questo
lavoro di traduzione ha fatto emergere anche un piccolo mistero: alcuni passaggi dell’edizione
italiana si scostano da quella francese, ossia la sua unica fonte dichiarata,
in modo davvero inspiegabile. Solo un esempio:
All’inizio della lettera del giorno di Natale 1921,
Ferenczi scrive: “Ich brauche Ihnen nicht zu sagen, daß das auf Infantiles
zurückgeht”. Questa
frase manca in FRA ma ricompare in ITA, per giunta con un errore, poiché la
parte iniziale, invece di essere resa come “Non ho bisogno di dirLe [che ciò
risale all’elemento infantile]” diviene: “Non c’è bisogno che Lei mi dica” (“Sie
brauchen mir nicht zu sagen”).
Forse
questo è frutto di un confronto tra traduttrice italiana e traduttrice
francese. Purtroppo non ho avuto il fattivo aiuto né della prima né della
seconda. Ma la questione della collaborazione tra studiosi è tutt’altra
faccenda: non sempre le cose vanno bene come è accaduto tra la GGG, Beate Schuh,
Michael Giefer e me.
Concludendo, spero di essere
riuscito a trasmettere i motivi per cui ritengo importante che testi e documenti
di e sulla storia della psicoanalisi oltrepassino le barriere linguistiche,
tradotti e ritradotti, e la cura con cui ritengo necessario approcciare questi
testi: con, arte, scienza e pazienza. Si ravviva così un serio e sempre più necessario
dibattito sulle origini e sull’identità di quella “schiera selvaggia” di cui continuiamo,
oggi, a fare coraggiosamente parte.
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