Sándor Ferenczi, "Diario Clinico": incipit (7 gennaio 1932)

 

Szelély-Kováks O., Berény R., Karikaturen, Internationale psychoanalytische Presse, 1924.


Michele M. Lualdi 

Il Diario clinico di Sándor Ferenczi (1932) è certo uno dei testi psicoanalitici più profondi e sinceri, complice forse il fatto che non era pensato dall’autore per la pubblicazione. Raccolta di note cliniche e teoriche che anticipano parecchie linee di sviluppo della psicoanalisi successiva, si apre su un tema in perfetta sintonia con lo stile spontaneo con cui fu scritto: quello di una fondamentale richiesta di “naturalezza” rivolta all’analista.
Propongo qui una nuova traduzione di questo primo scorcio sull’esperienza clinica dell’ultimo Ferenczi.
Ho cercato di conservare la massima aderenza al testo di partenza che, proprio per la sua natura di appunto personale, non ha il rigore e la coerenza che ci si attenderebbe da un lavoro curato e revisionato in vista di una sua pubblicazione. Si noteranno dunque repentini passaggi dal singolare al plurale, tanto nei sostantivi quanto nei verbi, quest’ultimi oscillanti a volte imprevedibilmente tra tempo presente e tempi passati.


7 gennaio 1932 [1]

L’insensibilità dell’analista

Modo manierato di salutare, invito formale “a dire tutto”, l’attenzione cosid. liberamente fluttuante, che infine [attenzione] non è e certo non adeguata alle comunicazioni dell’analizzando gravide di sentimenti, spesso dette con difficoltà, hanno l’effetto: 1) che il paziente viene ferito dall’assente o scarso interesse; 2) poiché su di noi non vuole pensare nulla di cattivo o deleterio, cerca la causa della non-razione in se stesso, in particolare nella qualità di ciò che ha comunicato, 3) infine dubita della realtà del contenuto, prima così prossimo al sentimento. In questo modo retroietta, si potrebbe dire, introietta l’accusa a noi rivolta, il rimprovero suona in realtà: Lei non mi crede! Lei non prende seriamente ciò che Le ho comunicato! Non posso accettare che Lei se ne stia lì seduto insensibile e indifferente, mentre io mi sforzo di figurarmi qualcosa di tragico dall’infanzia! – La reazione a quest’accusa (mai spontaneamente tirata fuori dal paziente e che solo il medico stesso può indovinare) può essere solo che si esamini criticamente il proprio comportamento e il proprio atteggiamento affettivo nel senso di ciò che è stato detto, che si ammetta la possibilità, anzi, la realtà per esempio della stanchezza, della monotonia, persino della noia. Automaticamente, però, si accresce l’interesse dopo un simile qui pro quo [2]: parola e gesto divengono più naturali, intervento e replica più vivaci, il chiedere e rispondere più naturali e più fruttuosi… 
La naturalezza e la sincerità del comportamento (Groddeck, Thompson) sono il clima più opportuno e più utile nella situazione analitica; l’accanito aggrapparsi a un atteggiamento teoreticamente fondato viene come tale [3] percepito dal paziente piuttosto in fretta come tale [4] e invece di dirlo a noi (o a se stessi) essi sfruttano la nostra peculiarità tecnica o parzialità per condurci ad absurdum [5]. Ricordo ad es. il caso N. G., non si stancava di raccontarmi di una istitutrice, per lei insopportabile, che con lei era molto gentile ma che non abbandonò mai l’atteggiamento pedagogico nonostante la lunga convivenza. La paziente aveva avuto in precedenza una nurse che si comportava sempre in modo naturale. Sono ora convinto che il relativo insuccesso di quest’analisi sia riconducibile alla mancata intuizione di questa situazione. Avessi compreso i suoi rimproveri e accuse nascosti e modificato di conseguenza il mio comportamento, la paziente non sarebbe stata costretta, nel comportamento verso di me, a ripetere inconsciamente l’atteggiamento di ostinazione dell’infanzia. La tragicità del suo caso stava proprio nel non-poter-tollerare il contegno rigido, in parte ipocrita di genitori, insegnanti e medici.
Il rigido aggrapparsi alla tecnica della frustrazione, indusse il mio [paziente] greco a proporre che forse, per favorire la cura, doveva rinunciare al cibo, cosa che poi fece davvero. Per sette giorni pieni non si concesse un boccone e avrebbe forse spinto il tentativo fino al suicidio se io non avessi abolito [quel]la norma. Questo lo feci però solo dopo che egli fu andato oltre, facendo la proposta di sospendere anche il respiro. Tali casi estremi mi costrinsero quindi a una sostanziale moderazione della mia “attività” [6]. Tuttavia, dovevo poi constatare che con il principio di rilassamento (passività), che iniziò a predominare in me come reazione all’attività, si potevano fare analoghe brutte esperienze. I pazienti cominciano ad abusare della mia pazienza, si permettono sempre e sempre di più e ci portano in gravi impicci e ci provocano non lieve irritazione. Solo dopo aver afferrato questa tendenza e averla ammessa davanti al paziente come ostacolo artificiale, creato da noi, esso si esaurisce. Il risultato di tali sbagli e la loro riparazione è tuttavia spesso il motivo e l’occasione per immergersi profondamente in conflitti analoghi e a suo tempo mal liquidati. Si veda il caso Dm., una signora che, “obbedendo” alla mia passività, si permetteva sempre più libertà e a volte addirittura mi baciava. Poiché questo veniva concesso senza riluttanza, come qualcosa di consentito nell’analisi e al più commentato dal punto di vista teorico, in una compagnia di pazienti, analizzati da altri, ella osservò, come incidentalmente: “Io posso baciare papà Ferenczi ogni volta che voglio”. Il fastidio che ne seguì, fu inizialmente trattato da me lasciando totalmente imperturbata questa analisi [7]. Allora la paziente iniziò a mettersi in ridicolo in modo per così dire ostentato con la sua condotta sessuale (negli incontri in società, ballando). Solo il comprendere e l’ammettere l’innaturalità della mia passività riportarono, per così dire, alla vita reale lei, che deve mettere in conto resistenze sociali. Al tempo stesso divenne chiaro che anche qui era un caso di ripetizione di una situazione-padre-figlia: da bambina venne ampiamente abusata sessualmente dal padre, incapace di dominarsi, ma poi, evidentemente per angoscia morale e paura sociale, diffamata, per così dire, dal padre. La figlia dovette vendicarsi in modo indiretto sul padre con l’insuccesso della propria vita. 
La naturalezza dell’analista tuttavia presenta comunque punti di attacco per la resistenza. La conseguenza più estrema venne tratta da quella paziente che sollevò a mo’ di pretesa che anche il paziente dovesse avere il diritto di analizzare il suo analista. Nella maggior parte dei casi questa pretesa doveva essere liquidata 1) ammettendo sul piano teorico le possibilità del proprio inconscio, 2) addirittura raccontando brani del proprio passato. In un caso, questa comunicazione di contenuti psichici propri si sviluppò realmente in una sorta di mutua analisi, dalla quale anch’io, l’analista, trassi molto vantaggio. Ma mi diede anche l’occasione di esprimere idee e opinioni sui pazienti, che altrimenti il paziente non avrebbe mai udito, ad es. commenti di riprovazione di natura morale o estetica, [commenti] sull’opinione che dei pazienti sentivo altrove ecc. Se facciamo capire al paziente che sopportiamo tutto ciò, allora lo aiutiamo a sopportare in generale, acceleriamo il distacco dall’analisi e dall’analista e la trasformazione in ricordo delle tendenze alla ripetizione che non vogliono cambiare. 

Bibliografia 

Ferenczi S. (1921), Ulteriore estensione della “tecnica attiva” in psicoanalisi. In Ferenczi S., Opere, 1919-1926, Volume Terzo, Raffaello Cortina, Milano, 1992, 99-114.

Ferenczi S. (1925), Psicoanalisi delle abitudini sessuali (e contributi alla tecnica terapeutica). In Ferenczi S., Opere, 1919-1926, Volume Terzo, Raffaello Cortina, Milano, 1992, 303-335.

Ferenczi S. (1926), Controindicazioni della tecnica psicoanalitica attiva. In Ferenczi S., Opere, 1919-1926, Volume Terzo, Raffaello Cortina, Milano, 1992, 340-50.

Groddeck G. (1925), Discorso al dessert durante il banchetto del IX Congresso internazionale di psicoanalisi. In Groddeck G., Simmel E., Lualdi M. M., Il Re selvaggio. Georg Groddeck ai congressi psicoanalitici, ESB, Lesmo, 2022, 227-36.


[1] Ferenczi S., Das klinische Tagebuch, Psychosozial-Verlag, Gießen, 2013, 39-43.

[2] Locuzione latina nell’originale.

[3] Ossia in quanto atteggiamento (“Einstellung”) teoreticamente fondato (“als solche”).

[4] Ossia viene percepito come (“als solches”) un aggrapparsi (“das Festhalten”).

[5] Locuzione latina nell’originale.

[6] La tecnica attiva di Ferenczi era strettamente legata al principio freudiano della frustrazione e, proibendo al malato attività piacevoli e per converso imponendogliene di spiacevoli, mirava a potenziarne gli effetti (Ferenczi, 1921, 102 e 105; Ferenczi, 1925, 304 e 329-330; Ferenczi, 1926, 346). Proprio in tal senso Ferenczi venne sarcasticamente ripreso da Groddeck (Groddeck, 1925, 230-31).

[7] Forse la frase più critica da rendere. Scrive Ferenczi: “Die Unannehmlichkeit, die daraus folgte, wurde von mir mit voller Affektlosigkeit dieser Analyse behandelt” (corsivo mio).

“Affektlosigkeit” è termine oggi raro, che indica un atteggiamento apatico o flemmatico in senso positivo (Deutsch Wörterbuch dei fratelli Grimm, lemma “Affektlosigkeit”), dunque una sorta di benevola imperturbabilità, che appare molto simile alla nota “benevola neutralità” freudiana. Il punto realmente problematico è che, per come è strutturata la frase, questa imperturbabilità è riferita non allo stesso Ferenczi, ma all’analisi: “imperturbabilità di questa analisi”. Per questo ho tradotto intendendo che la reazione di Ferenczi non fu di ritiro/distacco dell’affetto dall’analisi (e dalla paziente) ma di conservazione del suo stato passivo, di modo da non turbare l’andamento dell’analisi. Ma resta a mio parere un punto decisamente ambiguo.

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