A proposito dell'espressione “periodo di latenza” negli scritti di Sigmund Freud: il versante della lingua
Gustav Klimt, L'attesa (1909) (fonte: wikimedia) |
“Va notato che Freud parla di periodo di latenza, non di fase, il che va interpretato nel modo seguente: durante il periodo considerato, sebbene si possano osservare manifestazioni sessuali, non vi è, strettamente parlando, una nuova organizzazione della sessualità” (Laplanche, Pontalis, 1967, 316, corsivi degli autori).
La loro ipotesi è dunque che Freud qui non impieghi il termine “Stufe[2]” (“fase”), come invece fa per le classiche tappe orale, anale, fallica, genitale dello sviluppo piscosessuale, con un preciso intento. Questo intento sarebbe però implicito, mai dichiarato, e andrebbe pertanto interpretato, cosa che i due autori francesi fanno tout court, senza offrire alcun materiale a sostengo della loro interpretazione. Ciononostante questa è assurta tacitamente, nel corso del tempo, dallo status di ipotesi a quello di dato di fatto, secondo una tipica e insidiosa modalità cortocircuitante del pensiero che porta – a volte – a cessare di interrogarsi su un qualsiasi evento non appena se ne sia trovata una risposta che appaia sufficientemente buona (Lualdi, 2022, 1).
Ora, a prescindere dal fatto che,
se ci concentrassimo sul concetto piuttosto che sul termine, sarebbe forse
interessante interrogarsi su che fine faccia l’organizzazione precedente della
sessualità durante periodo di latenza (non c’è, è persa, è sospesa…) visto che
non ce n’è una nuova, sorge il sospetto che, forse, se Freud avesse realmente
scelto di non usare il termine fase per evidenziare un elemento
strutturale tanto importante all’interno delle dinamiche di sviluppo libidico
quale quello proposto da Laplanche e Pontalis, lo avrebbe dichiarato
apertamente.
Ma, mantenendo il focus sul termine
e ampliando il campo di osservazione dell’opera di Freud con l’inclusione dei suoi
scritti neurologici, si profila un’ipotesi alternativa, per la quale se non
altro sono possibili alcuni elementi a sostengo: ossia che Freud abbia
impiegato l’espressione “periodo/epoca di latenza” per il semplice fatto che
esisteva già, per giunta come termine medico specifico. Non a caso è presente
nei suoi scritti fin dagli anni in cui si occupa estesamente di neurologia
clinica, in particolare di paralisi cerebrale, scritti – si badi – tanto
neurologici quando psicologici (Freud, 1887a, 124; Freud, 1887b, 172; Freud,
1888a, 890; Freud, 1888b, 55).
Nello specifico, “Latenzzeit” è il
termine medico impiegato per indicare l’intervallo temporale che separa la
contrazione di una malattia (ad esempio un’infezione, ma non solo) dal
manifestarsi dei suoi primi sintomi: un periodo apparentemente silente, dunque,
ma in cui la malattia c’è.
E non si potrebbe dire qualcosa di
analogo per il periodo di latenza sessuale? Un lasso di tempo in cui i germi
della sessualità attendono le condizioni propizie (fisiche in primis)
che diano loro forza sufficiente per manifestarsi in forma concreta e
organizzata [3].
Sarà questo l’implicito di Freud?
Approfondendo
Quello di “Latenzzeit” non è certo un caso isolato di uso da parte di Freud di un termine medico per indicare un concetto psicoanalitico. Altri esempi sono “fissazione”, “difesa”, “innervazione”, “resistenza”, “inibizione” (Lualdi, 2019, 10-2; Lualdi, 2020, 24 e segg.). Il punto è che, in conseguenza della fortuna incontrata nel tempo dalla psicoanalisi, il nuovo significato da essa conferito a queste parole ha finito per oscurare del tutto o quasi quello precedente, sì che facilmente l’impressione è di trovarsi di fronte a termini privi di una vera e propria storia “prepsicoanalitica”.
Questo trasferimento di vocaboli da
un ambito all’altro è un fenomeno assai vasto e sfaccettato, non certo limitato
alla psicoanalisi o agli uomini di scienza del tempo di Freud. La forma più
semplice in cui esso compare è quella in cui un termine del linguaggio comune
viene acquisito da una disciplina specialistica. In psicoanalisi ne è un
esempio notevole il termine “Lust”, “piacere” (come in “Lustprinzip/principio
del piacere”). In neurologia si parla di “tronco” dell’encefalo, “rami” e
“radici” dei nervi. Siamo però talmente abituati a impiegare e ascoltare queste
parole che non ci accorgiamo nemmeno più della loro origine… botanica. Altre
volte invece, una disciplina si appropria di un termine tecnico di un’altra, lo
ingloba e le dà un nuovo significato. Oltre agli esempi già accennati e
relativi alla psicoanalisi, si può citare anche quello dell’espressione
darwiniana “lotta per l’esistenza”, poi assorbite, tra le altre discipline,
dalla sociologia e dall’economia (Pörksen,
1973, 10).
Queste parole ed espressioni
possono andare incontro a destini differenti. Alcune continueranno a essere
impiegate nel linguaggio di tutti i giorni senza subire sostanziali modifiche
(si pensi a “tronco”, “rami”, “radici”), altre invece torneranno al linguaggio
comune dopo solo dopo aver subìto un importante processo di trasformazione da
parte di una o più discipline specialistiche (Pörksen, 1973, 415; Pörksen, 1984/1986a,
554): basti pensare a “resistenza”, “fissazione”, “lotta per l’esistenza”.
Quando dunque Freud prende in
prestito termini tanto dalla medicina quanto dal linguaggio comune, non fa che operare
una scelta, posto di fronte al bivio inevitabile per ogni disciplina
specialistica in espansione: o creare parole nuove che possano veicolare nuove
ipotesi e scoperte, oppure impiegare quelle già note. Nel primo caso il
vantaggio sta nella possibilità di evitare denotazioni e connotazioni che
inevitabilmente ogni termine già in uso porta con sé, ma che potrebbero
distorcere la comprensione del nuovo concetto che si sta cercando di definire;
il grande svantaggio è la drastica perdita di comprensibilità, specie,
naturalmente, per i non addetti ai lavori, come dimostra ad esempio una parte
della fisica moderna, in particolare quantistica, ricca di neologismi (gluoni,
bosoni, ecc.).
Nel secondo caso rischi e vantaggi
sono opposti. Di nuovo ne dà esempio la fisica quantistica, in cui ciò che
viene chiamato cromodinamica (che pure è un neologismo, ma costruito a partire
da termini già esistenti e di chiaro significato) in realtà non ha nulla a che
vedere con ciò che intuitivamente porterebbe a immaginare: una qualche sorta di
legge dei movimenti cromatici [4].
La psicoanalisi, almeno con Freud,
si è sempre mossa su questa seconda linea preferendo, ai termini completamente
nuovi, i prestiti o dal linguaggio comune o da altre discipline, quali
biologia, chimica, fisica (Pörksen, 1973, 420; Pörksen, 1984/1986b, 192) [5]. Sia chiaro, non che Freud
manchi di neologismi, ma spesso, complice la plasticità del tedesco, che
consente molto più agilmente di altre lingue la costruzione di termini composti
a partire da vocaboli di uso comune (Anzieu, 1986, 225), si tratta di vocaboli
che, almeno in lingua originale, ben si “mischiano nella folla” delle parole
quotidiane. Lo stesso “psicoanalisi” è un neologismo derivante dall’evidente
unione di “psiche” e “analisi”. Termine, quest’ultimo, preso dalla chimica (Pörksen,
1984/1986b, 192). La qualità, che potremmo definire mimetica, di questi
neologismi freudiani, ossia il loro confondersi pressoché immediato con il
linguaggio corrente (in tal modo non disturbando in genere né la comprensione
del testo in cui si trovano, né le sue qualità stilistiche – elemento sempre
importante per Freud), risalta nettamente nel paragone con ben altri neologismi
psicoanalitici tentati da Jones e da Strachey nel tradurre in inglese le opere
del padre della psicoanalisi. Due su tutti: “cathexis” e “anaclisis” (in
italiano resi con “catessi” e con l’aggettivo “anaclitico”), che dovrebbero
tradurre le parole tedesche d’uso comune, “Besetzung” (“investimento”) e
“Anlehnung” (“appoggio”), ma che hanno sempre sollevato perplessità, proprio
per via del loro essere totalmente avulsi dal linguaggio quotidiano (Jones,1925, 5, 6; Holder, 1992, 92; Laplanche et
al., 1992, 168; Mahony, 1992, 31; Ornston, 1992a, 14; Ornston, 1992b, 216).
In verità, va fatta un’ulteriore
distinzione tra acquisizione di vocaboli dal linguaggio comune e da altre
discipline specialistiche. La prima tipologia è in qualche misura inevitabile
per ogni disciplina e introduce necessariamente un elemento metaforico, più o
meno evidente, nella descrizione dei fenomeni (si pensi alle metafore botaniche
poste in essere dal parlare di tronco dell’encefalo, rami e radici nervose,
ecc.).
La seconda invece può essere più
problematica, rischiando di determinare per esempio un qualche… eccesso di
metafora. Se infatti a nessuno verrebbe in mente di cercare particolari
analogie tra sistema nervoso e regno vegetale sulla base della terminologia
impiegata in neuroanatomia, può ben capitare che, colta la parziale provenienza
del termine “psicoanalisi” dalla chimica, si sia tentati di spingere l’analogia
oltre gli intenti originari di Freud, individuando (o credendo di individuare)
fin troppi collegamenti tra le due discipline. In altre parole, il rischio è che
i significati che il termine porta con sé dalla disciplina da cui è tratto
saturino eccessivamente lo spazio concettuale in cui dovrebbe trovar posto la
sua nuova applicazione nella nuova disciplina. Cosa che, a onor del vero, si
potrebbe benissimo dire della mia proposta alla fine del paragrafo precedente su
quale sia (ammesso che vi sia) l’implicito di Freud nell’impiego di
“Latenzzeit”.
Non che le cose vadano sempre in
questo modo, come ben dimostra il destino del termine “Sublimierung”
(“sublimazione”). Esso fu introdotto in tedesco da Paracelso per descrivere
processi chimici (Pörksen 1983/1986, 226), ma a distanza di secoli se ne
appropriò la psicoanalisi, attribuendogli un significato altro e oggi
decisamente prevalente, al punto che solo a fatica verrebbe in mente di cercare
dei paralleli tra il processo chimico e quello psicoanalitico della
sublimazione; per giunta, quando si impiega il vocabolo nel linguaggio comune
(cui alla fine è approdato), si intende pressoché sempre riferirsi al processo
psichico e non a quello chimico.
Altra traiettoria ha percorso
l’espressione darwiniana “lotta per l’esistenza” che, dopo essere passata per
l’economia, la sociologia (e la politica), ne è uscita non tanto con un nuovo
significato egemone, ma in modo pericolosamente distorto rispetto al senso con
cui era stato originariamente impiegato da Darwin (Pörksen, 1984/1986b, 190).
Non per nulla, nei suoi lavori
scientifici Goethe (uno dei maestri di stile di Freud) ricorreva a termini di
uso comune al fine di rendere ben comprensibile il suo pensiero [6] (Pörksen, 1974, 53-4), ma rifuggiva i
prestiti da altre discipline caldeggiando nel suo volume La teoria dei
colori (1810): “… la cosa più auspicabile sarebbe che le parole con cui si
vogliono designare i particolari di un certo ambito, le si prendesse da quello
stesso ambito” (cit. in Pörksen, 1974,
11).
A tal proposito, Jürgen Habermas ha aspramente criticato l’impiego
di Freud di termini derivanti da altre discipline scientifiche, sostenendo che questi
prestiti provocarono una sorta di “autofraintendimento” della psicoanalisi. Secondo
il filosofo, questo linguaggio avrebbe agli esordi affascinato e attratto i
sostenitori della visione meccanicistica del mondo (umano e non) in voga sul
finire del XIX secolo e scoraggiato chi non aderiva a tale visione. Ma essendo
la psicoanalisi disciplina non meccanicistica, chi la abbracciò finì per
fraintenderla, mentre chi avrebbe potuto ben comprenderla la ricusò (Pörksen,
1978, 371; Pörksen, 1979/1986, 411; Pörksen, 1984/1986b, 192).
Mi pare però che in questa critica
manchi del tutto la doverosa pars costruens – e in realtà non potrebbe
esserci. Tenuto infatti conto della formazione medica e scientifica che Freud
aveva ricevuto e dunque dell’ambiente in cui era immerso, che altro avrebbe
potuto fare? Quali altri mezzi linguistici avrebbe potuto impiegare per
comprendere i fenomeni psichici che andava studiando e per comunicarli agli
altri? Avrebbe davvero, di fronte a quel bivio linguistico di cui si è parlato,
scegliere di forgiare un linguaggio completamente nuovo rischiando non più di
essere frainteso ma addirittura di non essere compreso?
Da questi limiti, con cui peraltro
ognuno deve fare i conti per il semplice fatto di vivere in un certo tempo e in
un certo ambiente, originò l’esigenza di Freud di prendere a prestito termini
da altre discipline. E tra questi, credo, anche “Latenzzeit”.
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[1] Per una più ampia discussione di questo aspetto rimando a Lualdi, 2019, 12 e segg. Approfitto per segnalare la presenza lì di un grossolano e duplice errore nella tabella alle pagine 13-4: la somma delle occorrenze del termine “Latenzperiode” negli scritti di Freud non è 1 ma 21; di conseguenza il totale complessivo (ultimo valore in basso a destra) non è 87 ma 107.
[3] Non a caso come segnalato alla nota precedente, solo la fase genitale è indicata da Freud anche come “organizzazione”.
[4] Balza all’occhio la differenza con il termine psicoanalitico (neologismo ai suoi tempi) “psicodinamica”, con cui si allude, con un’inevitabile dose di metafora, alle leggi che determinano i “movimenti della psiche”, o meglio, delle forze che vi operano.
[5] Pörksen ritiene che circa un terzo della terminologia psicoanalitica di Freud provenga dal linguaggio quotidiano (Pörksen, 1973, 420). Considerato che egli non tien conto della neurologia quale disciplina specialistica da cui egli trasse alcuni termini, sarebbe in realtà da pensare che la sua stima sia per eccesso.
[6] Anche Darwin, altro scienziato molto ammirato da Freud, prediligeva nei suoi scritti termini di uso comune (Pörksen, 2016, 579). E prima di lui, Galileo Galilei prendeva la significativa decisione di abbandonare il latino (Pörksen, 1983/1986, 220) per impiegare la lingua volgare, sempre in nome della chiarezza espositiva, prendendo dal linguaggio comune e a esso restituendo, con nuovi e stabili arricchimenti di significato che noi diamo oggi spesso per scontati, termini come “forza, velocità, momento, impeto, molla (non solo il noto strumento meccanico, ma anche ‘forza elastica’)” (Scarpa, Tirassa, 2015, 441-2; corsivo nell’originale).
"Solo a fatica verrebbe in mente di cercare dei paralleli tra il processo chimico e quello psicoanalitico della sublimazione". Questa tua giusta osservazione mi fa sovvenire che C.G. Jung, al contrario, questo parallelismo lo delinea chiaramente, laddove a proposito dell'acqua come "mistero di ogni cosa" scrive: "Il dissolvimento [dell'acqua] nello spirito [battesimo], la volatilizzazione o sublimazione corrispondono - dal punto di vista chimico - all'evaporazione o almeno all'espulsione di ingredienti che possono assumere forma gassosa, come il mercurio, lo zolfo e così via." (Mysterium coniunctionis, Opere XIV, p. 226). Grazie per la tua approfondita e interessante ricerca. Francesco Marchioro
RispondiEliminaGrazie Francesco per l'interessante arricchimento, che dimostra sia gli arricchimenti che l'alone metaforico può apportare alla conoscenza, sia - se ce ne fosse bisogno - l'acume e la creatività di Jung
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