Georg Groddeck Parte VII: L’analista selvaggio
Peter Nicolai Arbo (1831-1892): La caccia selvaggia di Odino (1872) (fonte: wikipedia) |
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I precedenti contributi hanno tracciato un
percorso che ha permesso da un lato di cogliere imprecisioni e
contraddittorietà nelle ricostruzioni biografiche delle prime esperienze
psicoanalitiche congressuali di Groddeck (L’Aia, 1920; Berlino, 1922),
dall’altro di confermare la verità e la paternità della sua nota dichiarazione
del 1920: “Sono un analista selvaggio”.
Wilfred Bion,
che per parte sua in più occasioni, nei propri seminari, richiamava
l’attenzione sui “pensieri selvaggi” (Bion, 1983, 21, 61; Bion, 1997;
Bion, 2005, 62; corsivo mio), amava anche ricordare un aforisma del filosofo
francese Maurice Blanchot:
La fin troppo nota risposta è che egli si starebbe dichiarando analista privo di una formazione ufficiale alludendo all’annosa questione dell’analisi selvaggia (Freud, 1910), argomento di accesi dibattiti anche durante il congresso de L’Aia. Su questa linea si sono mossi tutti o quasi i biografi che abbiamo già più volte preso in considerazione – chi non lo fa è perché tace sull’argomento. Ma è proprio da essa che dobbiamo, almeno temporaneamente, uscire, come da una rigida armatura che protegge sì, ma impedisce movimenti più complessi e articolati o comunque in qualche modo non previsti dai suoi snodi. Naturalmente sono i Grossman a forgiare le prime placche della solida e resiste corazza:
“C’era agitazione. L’analisi selvaggia, ossia fatta da persone non formate, era un vero problema. Già nel 1910 Freud aveva scritto un articolo sui suoi pericoli. Come Groddeck aveva predetto in Nasamecu [1913], ognuno si illudeva di essere un analista; qualsiasi ciarlatano si denominava così. Chiunque avesse letto un articolo sulla tecnica poteva aprire un’attività come analista. Non vi erano diplomi, non erano necessarie certificazioni…
Sarebbe poi divenuto tipico di Groddeck
aprire le sue conferenze con un’affermazione priva di tatto” (Grossman,
Grossman, 1965, 95-6; corsivo degli autori, parentesi quadre mie).
Per parte sua Grotjahn vi vede non tanto un’asserzione priva di tatto quanto una dichiarazione orgogliosa e polemica (Grotjahn, 1966, 268), in linea con la “sua maniera provocatoria e masochistica” di affrontare situazioni pubbliche (Grotjahn, 1971, 152). L’autore non si addentra in una più approfondita disamina della questione.
Con maggior cautela dobbiamo valutare la
ricostruzione offerta nel 1980 da Clark, soprattutto nella versione italiana,
che suona:
“Cominciò con il definirsi un ‘analista selvaggio’ perché asseriva di ignorare (o forse soltanto intendeva sfidare) la consuetudine invalsa tra i benpensanti di definire ‘selvaggi’ gli psicoanalisti che sostenevano la tesi del libero amore, e che già da tempo contribuivano a dar cattiva fama alla causa della psicoanalisi” (Clark, 1980a, 417).
In realtà il testo originale suona un poco diversamente:
“He began by introducing himself with the words: ‘I am a wild analyst,’ either being ignorant of, or ignoring, the fact that ‘wild analyst’ was the name given to those totally unqualified psychoanalysts frequently advocating free love, who were already getting the cause a bad name” (Clark, 1980b, 403)
“Cominciò presentandosi con le parole: ‘Sono un analista selvaggio’, non sapendo, o volendo ignorare il fatto, che ‘analista selvaggio’ era il nome dato a quegli psicoanalisti completamente privi di qualifiche, spesso sostenitori del libero amore, che già allora arrecavano alla causa una cattiva reputazione” (traduzione mia).
Balzano all’occhio le importanti differenze tra le due versioni, ma facendo riferimento all’originale, prioritario in questo caso, possiamo considerare la spiegazione di Clark come sovrapponibile a quella dei Grossman, benché personalmente mi rimanga una qualche perplessità su quel preciso riferimento al “libero amore”, che forse altro non è che un’ulteriore eco indesiderata della storia (come abbiamo visto, assai poco fondata) che vuole Groddeck mal visto al congresso del 1920 proprio per il suo rapporto sentimentale con Emmy von Voigt: come chiaritomi infatti da Beate Schuh della Georg Groddeck Gesellschaft, un tale rapporto veniva definito ai tempi “wilde Ehe” (email del 24 gennaio 2022, corsivo mio), ossia letteralmente: “matrimonio selvaggio”.
Peter Gay non apporta alcun dettaglio
ulteriore: dà per scontato il significato della frase e aggiunge, a spiegazione
del perché venga pronunciata da Groddeck, che questi:
“sa benissimo che è proprio ciò che gli analisti presenti cercano di non essere o di non sembrare” (Gay, 1988, 369).
Sulla questione si sofferma invece più diffusamente Martynkewicz, in ciò lasciando fortemente intendere di avere consultato in proposito gli atti del congresso de L’Aia pubblicati nel quarto fascicolo della Zeitschrift del 1920 (Anonimo, 1920, 379-89), che pure non cita tra le sue fonti.
“Sembra che egli abbia esordito con l’affermazione autoironica: ‘Sono un analista selvaggio’… vuole essere solo una battuta di spirito per attirare il pubblico, suscitandone l’ilarità, perché si è discusso fino a quel momento con veemenza degli effetti nocivi della psicoanalisi ‘selvaggia’. Adolf Stern, un analista di New York, ha parlato della situazione in America, dove allievi che si definiscono freudiani applicano le più diverse tecniche e metodi molto diversi. Numerosi analisti presenti al congresso hanno chiesto regole omogenee e vincolanti per la formazione degli analisti. La discussione è poi proseguita con toni accesi sulla richiesta di conferire in futuro un diploma agli analisti. La questione del diploma, che negli anni successivi sarà l’argomento scottante dell’associazione, viene discussa per la prima volta proprio all’Aia. Quando Groddeck tiene il suo breve discorso conviviale, gli animi si sono già placati e la richiesta di Freud di spostare al congresso successivo la questione del diploma ha trovato concordi un gran numero di partecipanti. L’intervento che Groddeck offre agli analisti come aperitivo prima della cena riaccende però di nuovo il dibattito” (Martynkewicz, 1997, 260-1).
Se dunque la questione è per tutti gli autori quella letterale e concreta dell’analisi selvaggia, ciò che tra essi varia è la motivazione dell’uscita di Groddeck: Per i Grossman si tratterebbe semplicemente di mancanza di tatto, Grotjahn vi vede una polemica e una provocazione, Martynkewicz dell’ironia, una sorta di captatio benevolentiae. Clark per parte sua offre due spiegazioni, una delle quali sicuramente da scartare: infatti, che Groddeck ignorasse cosa si intendeva per “analista selvaggio” è impossibile considerato che, come ricorda Martynkewicz, proprio di questo si era discusso al congresso prima della sua conferenza. Quanto all’altra, il “far finta di” non essere a conoscenza della questione, resta inspiegato il perché lo farebbe.
Non che io non concordi con questo
ancoraggio della frase di Groddeck al problema molto pratico e sentito dell’analisi
selvaggia. E personalmente ritengo che da questo punto di vista egli intendesse,
con la propria uscita, esprimere in modo provocatorio la sua idea
sull’inutilità di definire percorsi obbligati e istituzionalizzati per la
formazione analitica. Ciò sarebbe in linea con la sua personalità di outsider:
ad esempio, inviando a Freud il 17 ottobre 1920 il testo approntato per la Zeitschrift
e relativo alla sua conferenza al congresso de L’Aia, Groddeck così commenta,
con ironia che sfiora il sarcasmo:
“Dopo questa prova spero di esser degno del diploma di psicoanalista e di poter tornare, con la coscienza placata, al mio gergo abituale…” (Freud, Groddeck, 1970, 39).
L’allusione è duplice. Anzitutto vi è un riferimento piuttosto svalutante al conseguimento del “diploma” di psicoanalista: se infatti basta scrivere un saggio di psicoanalisi per meritarselo, non sembra poi questa gran garanzia di formazione. In secondo luogo Groddeck ne sottolinea l’inutilità pratica: una volta ottenutolo, infatti, egli non farà che tornare al proprio stile di lavoro. Il diploma avrebbe in sostanza solo un effetto intrapsichico, quello di placare la coscienza morale soddisfacendo l’Ideale dell’Io. Ecco ancora, a testimonianza del suo atteggiamento verso le istituzioni, quanto scrive nella lettera del 27 aprile 1920:
“Le farebbe piacere se chiedessi di entrare in una delle Società psicoanalitiche? So già fin d’ora che non sono un tipo troppo adatto; però posso dire che sono sopportabile” (Freud, Groddeck, 1970, 36; corsivo mio).
E in quella del 23 novembre 1923:
“… scansai la carriera universitaria, che mi si parava dinnanzi alle migliori condizioni, così come quella psicoanalitica, che mi si offriva durante il congresso” (Lualdi, 2022a, 5).
Allo stesso modo, ultimo esempio, così commenta Simmel nel suo scritto in onore del sessantesimo compleanno di Groddeck:
“Lo sappiamo: Groddeck detesta tutto ciò che sa di corporazione, quand’anche essa si riunisca al solo scopo di rendergli onore” (Simmel, 1926, 6)
Alcuni elementi mi hanno tuttavia indotto ad approfondire ulteriormente la questione e a chiedermi se per caso la frase di Groddeck non possa essere intesa (anche) diversamente. È curioso, ad esempio, che proprio Simmel scarti qualsiasi riferimento diretto della dichiarazione di Groddeck all’analisi selvaggia per concentrarsi invece su altri suoi possibili significati. Certamente siamo in presenza di uno scritto elogiativo, da cui dunque non possiamo pretendere l’imparzialità necessaria per ritenere completamente affidabile una fonte storica, ma c’è dell’altro.
Per prima cosa, stanti gli standard della
formazione analitica ancora nel 1920, Groddeck non è per nulla “selvaggio”: non
solo perché molti dei suoi colleghi, come lui, esercitano senza avere affrontato
una propria analisi né personale né tantomeno didattica; non solo perché – ed è
di nuovo Simmel a ricordarcelo – nel suo campo precipuo di intervento
psicoanalitico, ossia i disturbi organici, non potrebbe contare su alcuna
figura che abbia più esperienza di lui e da cui apprendere; ma soprattutto non
è e non si ritiene di quelli che, come scrivono i Grossman, si limitano a
leggere un qualche articolo di tecnica prima di esercitare come analisti.
Basterebbero a comprovarlo la prima lettera da lui scritta a Freud il 27 maggio
1917 (Freud, Groddeck, 1970, 9 e seg.), il riferimento a Nasamecu fatto
dai Grossman e sopra riferito, nonché l’articolo di Groddeck del 1921, Sulla psicoanalisi dell’organico nell’uomo,
che consente di cogliere la sua conoscenza delle pubblicazioni psicoanalitiche
di Freud e non solo.
In secondo luogo, a sancire la sua
posizione ufficiale di analista stanno non solo la sua associatura, avvenuta
poco prima del congresso de L’Aia, alla Società psicoanalitica tedesca (Freud,
Groddeck, 1970, 37), ma soprattutto la diretta e precedente approvazione del
padre della psicoanalisi, che il 5 giugno 1917 (dunque tre anni abbondanti prima
egli eventi qui discussi), nella sua prima lettera indirizzata a Groddeck gli
scrive:
“Le faccio un grosso favore se La respingo da me, là dove sono gli Adler, gli Jung e altri. Ma non posso farlo, io devo avanzare le mie pretese su di lei, devo affermare che Lei è uno splendido analista, il quale ha afferrato irrevocabilmente la sostanza della questione. Chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento appartiene ormai, senza rimedio, alla schiera dannata” (Freud, Groddeck, 1970, 16-7).
Niente di questo caratterizza l’analista selvaggio, il quale non ha formazione, non appartiene ad alcun gruppo psicoanalitico ufficiale e di certo non può contare sull’approvazione di Freud. E a me pare che queste discrepanze tra ciò che ha da intendersi per analista selvaggio e la concreta situazione di Groddeck finiscano per compromettere l’effetto, ironico o provocatorio che sia, della sua affermazione di fronte all’uditorio. Simmel, che vive in prima persona gli eventi, se ne rende evidentemente ben conto e infatti coglie nell’uscita di Groddeck la rivendicazione della priorità nell’avere consegnato alla psicoanalisi un nuovo campo di indagine, la psicosomatica. Che l’affermazione sia stata intesa dai successivi biografi in tutt’altro senso, divenuto poi dominante, non stupisce: vuoi perché, come abbiamo potuto constatare, non sarebbe la loro unica imprecisione, vuoi per quel processo di calcificazione delle conoscenze ben descritto da Bion.
Può allora essere utile riprendere questo spunto
sulla priorità offertoci da Simmel e ritornare da qui a interrogare la frase di
Groddeck. Nel farlo intendo seguire il suggerimento di Bion e dare ascolto a
qualche mio “pensiero selvaggio”: così, ultimando un percorso in cui ho preso
in considerazione e sottoposto a critica gli elementi infondati, in un certo
senso “mitologici” delle altrui e precedenti ricostruzioni, proporrò anche io
una mia ipotesi decisamente speculativa. Per quanto possa apparire poco fondata,
risulta se non altro coerente non solo con tutti i dati storici e le fonti scandagliati
nei precedenti contributi, ma anche con ciò che della personalità di Groddeck
ho colto attraverso la lettura del suo carteggio con Freud.
La schiera selvaggia
Torniamo brevemente alla citazione poc’anzi fatta dalla lettera di Freud a Groddeck del 5 giugno 1917:
“Chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento appartiene ormai, senza rimedio, alla schiera dannata” (Freud, Groddeck, 1970, 17).
Il punto nodale è l’espressione “schiera dannata”, che gode di una certa fama anche grazie alla traduzione di un importante volume dedicato da Roazen alla storia della psicoanalisi, Freud e i suoi seguaci:
“A Freud piaceva pensare ai suoi seguaci come a una ‘schiera dannata’: questo corrispondeva alla propria immagine di conquistatore” (Roazen, 1975, 399).
Certo sappiamo che Freud si considerava un “conquistador” fin dai tempi della sua amicizia con Fließ (lettera di Freud a Fließ dell’1 febbraio 1900; Freud, 1985, 434), ma in che senso seguire un conquistatore dovrebbe significare essere un dannato? Questo francamente mi sfugge, a dispetto della naturalezza con cui lo afferma Roazen.
Se cerchiamo lumi interrogando direttamente l’originale della lettera
di Freud a Groddeck, scopriamo che quella “schiera dannata” è in realtà un
“wilden Heer” (Groddeck, Freud, 2014, 10), ossia letteralmente un “esercito
selvaggio”, una “schiera selvaggia”. Differenza non da poco. Anzitutto, cosa
che sfugge con la classica traduzione italiana, ci ritroviamo inaspettatamente tra
le mani la parte più significativa dell’affermazione di Groddeck, quell’aggettivo
“wild” su cui già Simmel pone l’accento e che orienterà poi le interpretazioni
dei successivi biografi: potremmo dire che raramente aggettivo fu più
“qualificativo” di così.
Ma c’è di più: “das wilde Heer” non pare essere una denominazione
casuale e neutra, in quanto corrisponde a uno dei nomi (un altro essendo “Die
wilde Jagd”, la “caccia selvaggia”) con cui è indicata un’antica leggenda di origini nordiche, difficilmente ignota a
Freud. La si ritrova ad esempio in Atta Troll di Heinrich Heine, https://it.wikipedia.org/wiki/Heinrich_Heine
scrittore di cui Freud possiede tutti gli scritti (Davies, Fichtner, 2004,
246); ne parla inoltre Jakob Grimm nella sua Deutsche Mythologie [Mitologia tedesca],
autore e tematica per nulla estranei ai suoi interessi. Senza contare
naturalmente la sua diffusione tra la popolazione, associata com’è alle
ritualità religiose cristiane (e se del resto non fosse stata diffusa tra la
popolazione di lingua tedesca, difficilmente Heine ne avrebbe fatto parte
integrante di una sua opera…). La leggenda, con variazioni locali, è nota in
tutta Europa, Italia compresa, dove prende il nome di “caccia selvaggia”, “caccia infernale”, “schiera furiosa”, ecc… (ma
non, a quanto mi consta, “schiera dannata”). Già nel XIV secolo se ne trovano
tracce nella letteratura nostrana, in particolare nell’ottava novella della
quinta giornata del Decameron di Boccaccio,
Nastagio degli Onesti.
In estrema
sintesi, la leggenda vuole che un’orda di esseri sovrannaturali [1]
attraversi il cielo
intenta in una caccia furiosa, “die wilde Jagd”. Il cacciatore selvaggio, “der
wilde Jäger”, guida il proprio esercito, “das wilde Heer”, con tanto di
cavalli, segugi e battitori. Assistere al passaggio della schiera selvaggia,
che in genere è ritenuto avvenire la notte di Natale, ma anche durante
l’epifania, il carnevale o il Venerdì Santo, è presagio di sciagure personali (malattie,
morte), oppure collettive, (guerra, epidemia [2]).
La mia ipotesi è dunque che scrivendo a Groddeck Freud voglia alludere,
con la sua tipica ironia sottile, alla leggenda e più in particolare che,
annoverando il destinatario tra i membri della schiera selvaggia, si arroghi al
contempo il ruolo del cacciatore selvaggio, di colui che guida la schiera. Credo
che questo punto di vista gioverebbe anche alla consequenzialità logica della considerazione
di Roazen sopra citata e che rivedrei così: a Freud piaceva pensare ai suoi
seguaci come a una ‘schiera selvaggia’: questo corrispondeva alla propria
immagine di cacciatore selvaggio, sulla scorta della diffusa e omonima leggenda
nordica.
Ciò che giustifica una lettura tra le righe della pagina di Freud è il
fatto che simili citazioni “mascherate” sono una caratteristica del suo stile,
tanto per ciò che concerne la scrittura pubblica (gli articoli, i saggi, i
volumi) quanto per quella privata, come le lettere. Naturalmente si tratta di
una peculiarità che acquista senso e dunque può sussistere solo in un contesto come
quello in cui egli è immerso, nel quale la sostanziale omogeneità dei
riferimenti letterari e più in generale culturali appresi durante i percorsi
formativi garantisce un patrimonio nozionistico e conoscitivo condiviso soprattutto
tra coloro che hanno affrontato studi superiori e universitari e offre dunque al
destinatario ottime chances di cogliere le allusioni fatte dal suo interlocutore.
Si tratta di una questione ampia, sulla quale avrò modo di tornare più
approfonditamente in un prossimo post che proprio da questo punto di vista
affronterà certe sfaccettature dell’autoanalisi di Freud; basti per ora un
esempio che ci riguarda molto da vicino. Nella lettera del 21 febbraio 1883
alla futura cognata Minna Bernays Freud scrive:
“Vi sono ancora nubi sull’orizzonte domestico; in un angolo brontola il tuo Ignaz, nell’altro la tua mamma tiene il broncio; ma non mancano sintomi che anche questa coppia, di guerra lassa, farà la pace” (Freud, 1960, 30).
Questa frase contiene una precisa citazione, “di guerra lassa”, che Freud non ha bisogno di evidenziare con virgolette o altri segni grafici, proprio perché sa che Minna la coglierà da sé: così, non esplicitata dall’autore ma scoperta dalla lettrice, l’allusione crea, a differenza della citazione dichiarata, un secondo livello di comunicazione (“io so che tu sai”) e addirittura un terzo (“so che tu sai che io so”) e con essi un piacere aggiuntivo alla lettura, fondato sulla complicità. A me invece, per cogliere il riferimento letterario, è servita la provvidenziale nota 5 di pagina 441: grazie a essa avrò pur perso l’implicita intesa con Freud consentita dal gioco allusivo, ma vengo a sapere che “guerra lassa” è espressione tratta dall’opera in versi Lenore di Gottfried August Bürger, autore di non poche ballate tra cui… Der wilde Jäger (“Il cacciator selvaggio”).
Le due ballate vengono tradotte in italiano nel 1816 dal poeta milanese
Giovanni Berchet,
che decide di presentarle in un unico scritto: Sul cacciatore feroce e sullaEleonora di Goffredo Augusto Burger. Lettera semiseria di Grisostomo. Nell’introduzione Berchet pone Bürger tra i tre
maggiori lirici tedeschi in compagnia di Friedrich Schiller e di Wolfgang Goethe
(per inciso, entrambi spesso citati da Freud) e spiega che se ha deciso di proporre
insieme Lenore e Der wilde Jäger è perché sono i due più noti poemi
in cui l’autore tratta il tema a lui caro del “terribile” e del “magico”
(Berchet, 1816, 210-1, 255). E sempre Berchet ci conferma che Der wilde
Jäger altro non è che una trasposizione letteraria della leggenda di cui
stiamo trattando, né più né meno che la novella di Boccaccio sopra ricordata,
fatte salve inevitabili differenze legate alle due diverse culture di
appartenenza e tradizioni di riferimento (Berchet, 1816, 239-40).
In sintesi, se da un lato è vero che, a quanto mi risulta, Freud cita
Bürger solo nella lettera a Martha poc’anzi citata, dall’altro mi pare assai
difficile che egli non conosca, per via di questo autore o attraverso altri
canali, la leggenda della caccia selvaggia e ritengo molto probabile che a essa
alluda scrivendo a Groddeck il 5 giugno 1917. E con altrettanta probabilità
Groddeck, simile a Freud per formazione accademica e contesto culturale, avrà
colto il rimando letterario-leggendario.
Di per sé la leggenda della “schiera selvaggia” ben si presta a
figurare il sottotesto del primo scambio tra Freud e Groddeck, finalizzato a delineare
i reciproci ruoli. Così, al medico tedesco che per la prima volta lo contatta chiedendogli
se può annoverarsi “fra gli psicoanalisti secondo la Sua definizione” (Freud,
Groddeck, 1970, 11) ma sottolineando al contempo l’indipendenza tanto della
propria formazione quando del campo in cui applica il sapere analitico, ossia
le malattie organiche, Freud risponde che sì, può annoverarsi tra le file degli
analisti e che appartiene di diritto alla “schiera selvaggia”, ma che no, non
ha da arrogarsi alcuna priorità o originalità: Freud è il solo a guidare, per
dirla con il Berchet, la “ciurma feroce” (Berchet, 1816, 239); nessun altro può
essere il “cacciatore selvaggio”. Nella sua prima lettera a Groddeck, Freud
esplicita in modo conciso ed efficace il duplice punto, in un passaggio
successivo a quello della “schiera” lì indicata come “dannata”:
“Vorrei dunque accoglierLa a braccia aperte come collaboratore, ma mi disturba solo il fatto che Lei abbia, a quanto sembra, così poco superato la banale ambizione all’originalità, e aspiri alla priorità… Lei ha pur sempre dieci o forse quindici anni meno di me (1856). Non potrebbe avere assorbito per via criptomnesica le idee basilari della psicoanalisi?” (lettera di Freud a Groddeck del 5 giugno 1917; Freud, Groddeck, 1970, 17-8).
È circostanza notevole quella per cui proprio le lettere
immediatamente successive al congresso del 1920 rappresentano uno dei momenti salienti
in cui si manifesta il movimento pendolare di Groddeck tra bisogno di
dipendenza e aspirazione alla libertà, tra il sentirsi seguace accolto e
pioniere ineguagliato. In questo senso è molto significativa la lettera che
scrive a Freud il 20 novembre 1920. Questi ha ricevuto il mese precedente il
saggio Sulla psicoanalisi dell’organico nell’uomo, sistematizzazione
della conferenza di Groddeck al congresso de L’Aia e ha risposto il 15 novembre
chiedendo tra l’altro di modificarne (meglio, di amputarne) la parte finale,
troppo mistica. Groddeck risponde cinque giorni dopo, umilmente condiscendente
sulla richiesta di Freud ma avvisandolo:
“il mio misticismo, del quale non posso fare a meno, dovrà venir fuori da qualche altra parte” (Freud, Groddeck, 1970, 42).
È proprio a proposito di misticismo, proprio dopo aver chinato il capo di fronte all’autorità, che accenna all’idea di un libro, evidentemente Il libro dell’Es, idea che mette a nudo l’intensa ambivalenza del suo legame con Freud, tra una spinta alla superba autonomia e una dipendenza descritta con connotazioni addirittura simbiotiche, di confusione con l’altro, la separazione dal quale non può che essere vissuta come lacerazione di un Sé tanto fragile da ridursi a vero e proprio Io-pelle. Mi si conceda la lunga citazione della lettera, con le toccanti note conclusive:
“… ho paura che non Le piacerà troppo, poiché conterrà molto misticismo e molta fantasia. Anche per i miei rapporti con Lei sarà una gran bella cosa quando avrò partorito questo mostro. Mi sento come un bambino di cui i grandi pensano che sia stato buono, mentre nel profondo nasconde in sé ogni sorta di cose che, lui lo sa bene, non verrebbero approvate dai genitori; perciò mi piacerebbe che Lei conoscesse questo lavoro. Si vedrà allora se mi può ancora tollerare come seguace. Non mi sfugge che dietro questa paura di perdere la Sua approvazione si nasconde il desiderio di ritrovare la libertà… Il megalomane, che cova dentro di me, mette fuori la testa anche dove non dovrebbe. Più volte ho dovuto constatare che, per eccesso di prudenza, una persona ha taciuto cose che proprio lei sola avrebbe potuto dire...
Forse anche mi sbaglio, e il libro non è poi così
pericoloso. Comunque La prego di non dare ancora un giudizio definitivo su di
me, per quanto riguarda la mia attività medica. E quanto all'uomo, Lei non
potrà liberarsi di me, se non altro perché sarò io a non mollarla; io me ne sto
aggrappato ben forte, e così ci rimetterei un pezzo di pelle se mi si
scrollasse via.
Spero che le mie dichiarazioni d'amore non suonino
troppo monotone. In fondo, però, sono tranquillo a questo riguardo, da quando
ho visto il Suo sorriso comprensivo che personifica così bene il ‘Non giudicate’”
(Freud, Groddeck, 1970, 43).
Sono chiari, in primis a Groddeck, da un lato l’immagine grandiosa di sé (il megalomane, l’unico a poter dire certe cose) e dall’altro quella svalutata (il bambino spaventato di fronte ai genitori). Né sfugga la dimensione materna in cui Freud viene vissuto, quella stessa che egli ribadirà due anni più tardi nella lettera del 23 novembre 1922 (Lualdi, 2022a, 5) e che Freud sempre ricuserà. Da questo punto di vista, il sorriso comprensivo e non giudicante certo richiama maggiormente l’incondizionata accoglienza dell’elemento materno arcaico che non l’autorità con cui in quel rapporto si intromette poi il paterno. Ma è soprattutto l’immagine dello strappo, del concreto lacerarsi della pelle in caso di abbandono a veicolare l’aspetto più regressivo e profondo del rapporto di Groddeck con la madre-Freud.
Solo un mese prima, il 17 ottobre, Groddeck chiudeva
la lettera con cui inviava a Freud Sulla psicoanalisi dell’organico
nell’uomo, con un’aperta dichiarazione d’amore:
“… nel giorno del congresso io non ho fatto che correrLe dietro quasi in trance, come un innamorato” (Freud, Groddeck, 1970, 40).
Ecco perché il 20 novembre sente il bisogno di esprimere la speranza che le sue “manifestazioni d’amore non suonino troppo monotone”. Si noti tra l’altro come per Groddeck il congresso si riduca a un solo giorno, quando sappiamo che sia lui sia Freud si fermano a L’Aia per tutta la durata dei lavori e anche più [4]: evidentemente il giorno è il 9 settembre, quello in cui Groddeck inizia la sua conferenza dichiarando: “Sono un analista selvaggio”.
Ed eccoci di nuovo alla nostra frase: cosa ha a che
fare con essa quanto detto finora? Un primo elemento necessario per rispondere
è proprio la condizione di perenne conflitto di Groddeck, che marca fin
dall’inizio il modo in cui egli vive il rapporto con Freud: un continuo
oscillare tra l’innamoramento per lui e la grandiosità del Sé megalomane, entrambe
forme di eccessivo investimento libidico, la prima verso l’altro, la seconda su
di sé (Freud, 1914, 468 e seg.).
Il secondo elemento, strettamente legato al primo, è
il concentrarsi dell’attenzione e dell’interesse di Groddeck esclusivamente su
Freud: da buon innamorato ha occhi solo per lui, tutto il resto del movimento
psicoanalitico non conta. Abbiamo già colto questo aspetto analizzando la
conferenza di Groddeck al congresso di Berlino del 1922 (Lualdi, 2022c)
alla luce della preziosa lettera del 23 novembre 1922, di cui già si è
evidenziata l’analogia con la lettera del 20 novembre 1920 relativamente al
transfert materno su Freud): si è detto di come in quell’occasione, attraverso
la propria conferenza, Groddeck parli su due piani differenti a due distinti
ascoltatori: da un lato quello anonimo rappresentato dall’uditorio, in grado di
cogliere solo il contenuto letterale dell’intervento, dall’altro Freud, l’unico
ascoltatore di cui a Groddeck importi veramente qualcosa, l’unico che, già a
conoscenza di molti antefatti per via dei precedenti scambi epistolari privati,
può accedere al livello più profondo e veramente significativo della conferenza.
Non a caso, nella lettera del 23 novembre 1922 Groddeck definisce quest’ultima
“un discorso spiritoso di cui probabilmente solo chi già sapeva
ha colto l’intelligenza” (corsivo mio): in mezzo a un pubblico indistinto che ha
potuto cogliere solo gli aspetti spiritosi del discorso, Freud è stato probabilmente
il solo a comprenderne l’intelligenza.
Abbiamo anche visto, proseguendo nell’indagine degli
eventi del congresso di Berlino, che ciò che turba Groddeck dopo l’ascolto della
conferenza di Freud è – questa almeno la mia ipotesi – un problema di priorità:
rivendicare la paternità del concetto di Es, oppure tacere? Si tratta proprio del
conflitto fondamentale sopra tratteggiato, che per l’occasione Groddeck risolve
prendendo contemporaneamente due vie: a un livello superficiale tace e non
mette in campo questioni di priorità, adeguandosi dunque al ruolo di gregario, ma
a un livello più profondo fa arrivare chiaro a Freud un messaggio completamente
diverso: “Io, non tu, ho capito che il concetto di inconscio va rivisto e
ridefinito, e che per questo serve introdurre l’Es. Il pioniere, colui che
guida, sono io”. Circostanza interessante, il tema delle conferenze tanto di
Groddeck quanto di Freud al congresso di Berlino, ossia le questioni della
definizione di inconscio e dell’introduzione dell’Es, si ritrova espresso giusto
nelle primissime lettere tra i due. Se Groddeck, introducendo il concetto di
Es, scrive a Freud il 27 maggio 1917 della necessità di allargare il concetto
di inconscio (Freud, Groddeck, 1970, 12), questi risponde il 5 giugno:
“Non occorre alcun ampliamento del concetto di Ubw [Inc] per coprire le Sue esperienze nei disturbi organici” (Freud, Groddeck, 1970, 17, corsivo dell’autore, parentesi quadre mie).
Freud ricusa dunque, nel 1917, il concetto di “Es” e la cosa ci aiuta a comprendere meglio il turbamento di un Groddeck impreparato che, al congresso del 1922, sente dichiarata da Freud la necessità di ripensare l’inconscio e di introdurre proprio quel concetto: un vero fulmine a ciel sereno! Tant’è che, prendendo la parola, Groddeck non fa che riproporre in sostanza parte del contenuto della sua prima lettera del maggio 1917, come si può agilmente cogliere anche a una rapida lettura.
Non lasci perplessi questa sorta di “azzeramento” del
tempo, che fa tutt’uno del testo di una lettera del 1917 e di quello di una
conferenza del 1922. Gli innamorati, forse ancor più quando feriti, sanno
spesso rievocare qualche evento occorso anche anni prima con la stessa
vividezza del fatto appena accaduto, magari con tanto di corredo emotivo
originario: altro non è che la manifestazione di certe leggi che governano l’inconscio,
la cui struttura è atemporale (Freud, 1915, 71). In Groddeck un simile
“collasso cronologico” ricorre in diverse occasioni e situazioni. Eccone alcuni
esempi, oltre a quello appena segnalato. Nella lettera del 31 maggio 1923
troviamo un inciso interessante:
“Lei, e anche Sua figlia Anna, che non volli riconoscere, hanno gli occhi di mia madre” (Freud, Groddeck, 1970, 82).
Groddeck fa questa affermazione come se stesse semplicemente proseguendo senza soluzione di continuità un discorso o al più come se ne stesse riprendendo uno da poco interrotto. Ma chi legga la lettera si accorgerà che in essa il commento non trova contestualizzazione: si intuisce solo che egli sta dando per inteso un qualcosa di cui anche il destinatario è a conoscenza. Ebbene, questo qualcosa lo si ritrova solo in una lettera da lui scritta circa sei mesi prima, quella a noi ormai nota del 23 novembre 1922:
“…la signorina Anna Freud. Il fatto che io non l’avessi riconosciuta [al congresso di Berlino] trovava giustificazione nei suoi occhi, molto simili a quelli di mia madre” (Lualdi, 2022a, 5; parentesi quadre mie).
E se dare per scontato che l’altro ricordi il contenuto (mai più toccato) di una riga di una lunga lettera di sei mesi prima sembra qualcosa di poco significativo, si consideri l’incipit proprio della lettera del 23 novembre 1922:
“Una volta mi avete scritto che leggete con interesse i racconti delle mie esperienze personali” (Lualdi, 2022a, 3).
Qui, come chiarisce Michael Giefer nell’edizione da lui curata del carteggio, Groddeck si sta riferendo alla seconda lettera di Freud, quella del 29 luglio 1917!
Ancora, sappiamo che nel 1926 rievoca con vivido
ricordo e freschezza di sentimento gli eventi del congresso de L’Aia, dunque di
sei anni prima:
“Quando penso a quell’incontro provo gioia: ebbi le palpitazioni, non quelle di chi prova paura e neppure quelle di uno scolaro davanti all’insegnante – penso di non aver mai provato una sensazione del genere…” (cit. in Martynkewicz, 1997, 260).
Di più, il 7 febbraio 1932, ossia altri sei anni più tardi, scrive a Freud:
“… forse la signorina Anna ha ancora un po’ di simpatia per me, in
ricordo del nostro incontro all’Aia, a cui ripenso non di rado” (Freud,
Groddeck, 1970, 109, corsivo mio).
Proprio questa propensione ad azzerare le distanze temporali, dando spesso per scontato che lo stesso valga per l’altro, è il terzo e ultimo elemento di cui abbiamo bisogno per ricostruire gli eventi che nel 1920 portano Groddeck a dichiararsi “analista selvaggio”. Ricomponiamo dunque, infine, il quadro.
Anche a L’Aia il punto fondamentale resta il conflitto di Groddeck tra
mostrarsi seguace di Freud e innovatore indipendente, conflitto probabilmente acuito
dal fatto che si tratta della prima e tanto attesa occasione in cui può
incontrare di persona il padre della psicoanalisi: da un lato Groddeck espone
sulla psicosomatica, campo in cui può dichiararsi pioniere senza tema di smentite,
ma dall’altro si propone come affiliato di Freud, elemento rimarcato dal fatto
che, proprio per partecipare al congresso, ha dovuto preventivamente aderire ufficialmente
al gruppo psicoanalitico di Berlino. Per giunta, durante il congresso (e prima
della conferenza di Groddeck) la questione delle regole di affiliazione dei
nuovi soci viene dibattuta animosamente: è un argomento scottante per molti e
di difficile risoluzione.
Quando Groddeck prende la parola per la conferenza, il conflitto trova
la sua acme: come presentarsi a Freud, unico pubblico di cui gli interessa
effettivamente qualcosa? come il fedele gregario o come l’innovatore, pari a
lui? Si ripropone in sostanza il dilemma della sua prima lettera al padre della
psicoanalisi, per forza di cose lettera “di presentazione”. Dilemma ora giocato
sul livello emotivamente più coinvolgente del primo contatto “dal vivo”.
E come accadrà a Berlino, anche qui egli prova a comunicare su due
livelli, uno superficiale, rivolto a tutti e il secondo, profondo e allusivo,
diretto unicamente e miratamente a Freud. Ciò a partire proprio dalla frase di
apertura: “Sono un analista selvaggio”.
Agli orecchi degli astanti non possono che risuonare in essa gli echi
dei dibattiti sull’analisi selvaggia tenutisi fino a poche ore prima. Potremmo
equiparare questo livello di significato a quello del contenuto manifesto del
sogno, in cui risuonano i resti diurni da cui ha preso forma. E come nel sogno l’altro
contenuto, quello latente, legato ai moti pulsionali e alla loro storia,
sfrutta a proprio vantaggio tali resti diurni, così accade per la nostra frase:
prendendo spunto dai dibattiti appena conclusisi sull’analisi selvaggia, coglie
e sfrutta l’occasione per dar voce a una questione passata ma solo
apparentemente risolta e, soprattutto, libidicamente investita: quella dei
rispettivi e reciproci ruoli nel rapporto con Freud. A questo secondo livello
la frase si configura come la più verace reazione di Groddeck all’essere stato
posto da Freud, all’origine del loro rapporto, nella “schiera selvaggia”.
Si ricorderà infatti che la leggenda è nota sia come “la schiera
selvaggia” (o “esercito selvaggio”) sia come “la caccia selvaggia” (die wilde
Jagd) sia infine, ad esempio nella versione di Bürger, possibile fonte
letteraria dell’allusione di Freud, come “il cacciatore selvaggio”, “der wilder
Jäger”. Nel primo caso l’accento è posto sul gruppo di gregari, nel terzo su
chi li capeggia e guida: il “cacciatore selvaggio” è il calco da cui Groddeck
trae l’impronta allusiva della sua dichiarazione di essere un “analista
selvaggio”, arricchendola di un significato secondo, abilmente nascosto (latente)
ma al contempo ben visibile agli occhi di chi per primo a tale leggenda ha fatto
riferimento. In altre parole, a un Freud che fin dal principio vuol porlo tra i
gregari, Groddeck risponde ora per le rime: lui non è un semplice seguace ma un
capo, non fa parte della “schiera selvaggia” ma è il “selvaggio”, cacciatore-analista,
degno e capace di porsi sua testa, né più né meno che il “conquistador” Freud.
La posta in gioco è qui ben più alta che non il riuscire a provocare una
qualche reazione nell’uditorio, sconcerto o ilarità che sia: si tratta sia di
definire precise coordinate identitarie e di stabilire le reciproche posizioni
all’interno del loro rapporto, sia di chiarire chi dei due ha il diritto di
farlo.
Anzi, qui di nuovo torna suggestiva l’analogia con il sogno. Se infatti
la coerenza del contenuto latente può ottenersi a spese di (o grazie a)
incoerenze più o meno importanti del contenuto manifesto, lo stesso vale per la
dichiarazione di Groddeck. Abbiamo infatti visto che il significato manifesto
della frase lascia piuttosto perplessi, perché concretamente Groddeck
nel 1920 è tutto fuor che un “analista selvaggio” e dunque come provocazione o
battuta di spirito essa non sembra molto ben congegnata [5].
Al contrario, mettendo a fuoco il livello “latente”, i rimandi della frase
risultano più articolati e assai meglio orchestrati, in una formidabile opera di condensazione.
Venendo a sovrapporti il congresso del 1920, primo incontro di persona con
Freud, al primo scambio epistolare di tre anni prima, si crea il collegamento
che consente di sfruttare un fatto attuale e noto a tutti i presenti (le
discussioni sull’analisi selvaggia) quale veicolo per questioni per Groddeck
decisamente più rilevanti (definire il rapporto con Freud). L’aggettivo “wild”,
“selvaggio” fa tanto da solido raccordo tra i due tempi e le due tematiche
quanto da punto di scambio per distribuire i due diversi significati ai due
distinti destinatari, Freud e l’uditorio. La modalità di questa condensazione è
quella raffinata e diffusa tra i dotti del periodo di inviare una sorta di
“messaggio in codice” mascherato da un messaggio esplicito e decodificabile
solo dal destinatario designato, in quanto a conoscenza delle informazioni
necessarie per farlo. Come valore aggiunto il codice del messaggio si riveste
di un alone forse letterario (Bürger), di certo leggendario.
E se ha senso questa ricostruzione,
l’uscita di Groddeck è da considerarsi un vero capolavoro di comunicazione.
Ampliando lo sguardo
Le dinamiche che abbiamo posto alla base dell’affermazione con cui Groddeck introduce la sua conferenza trovano applicazione, significativamente, anche a quest’ultima nel suo complesso. È infatti interessante notare come il saggio da essa tratto, Sulla psicoanalisi dell’organico nell’uomo, riproponga elementi salienti proprio del primo scambio di lettere tra Groddeck e Freud. Tra i vari paralleli che si potrebbero tracciare uno più di tutti merita attenzione.
Scrive Groddeck a Freud il 27 maggio 1917:
“… ben presto… mi trovai di fronte ai concetti di transfert e resistenza… che in un certo senso divennero automaticamente le chiavi di volta del trattamento” (Freud, Groddeck, 1970, 9).
E con chiaro riferimento a questo passaggio così gli risponde Freud:
“Chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento appartiene ormai, senza rimedio alla schiera dannata” (Freud, Groddeck, 1970, 17).
Ora, proprio questo punto, che spinge Freud a riconoscere Groddeck come suo seguace e a porlo nella schiera selvaggia, viene ripreso nello scritto del 1921, quasi a sancire l’intima prossimità tra le due situazioni:
“I due fattori che guidano il trattamento psicoanalitico e che sono decisivi nella sua applicazione, resistenza e transfert, sono noti da sempre nella terapia organica… Che Freud abbia chiaramente detto cosa significhino in realtà queste cose, ci ha resi modesti e più sicuri. Questa teoria, la più importante delle sue dal punto di vista pratico, può diventare forse l’unico bene comune per tutti i medici; essa dovrà diventarlo e per questo lo diventerà. Nel trattamento della resistenza e del transfert è racchiusa tutta la sapienza dell’agire medico” (Groddeck, 1921, 17; corsivo dell’autore).
Anche nel corpo della conferenza del 1920, dunque, si intrecciano le due spinte conflittuali di Groddeck verso il rapporto con Freud: essere riconosciuto come seguace (riferimento a transfert e resistenza) e al contempo essere ammirato come pioniere (la scelta del tema). Il poderoso incipit, il richiamo all’analista selvaggio, marca peraltro il prevalere dell’elemento orgoglioso, del bisogno di essere confermato nel ruolo di condottiero. Ricordiamo del resto che proprio poco dopo il congresso, Groddeck mette l’accento su questo aspetto scrivendo a Freud:
“Il megalomane, che cova dentro di me, mette fuori la testa anche dove non dovrebbe”.
Il conflitto attraversa tutto il rapporto Freud-Groddeck e il loro scambio epistolare ci consente di coglierne vari momenti, tra i quali ne segnalo un paio. Il primo è in occasione del sessantesimo compleanno di Groddeck, allorquando Simmel rievoca pubblicamente gli eventi del 1920. Ringraziando la Società psicoanalitica di Vienna per gli auguri ricevuti, Groddeck coglie la palla al balzo per sottolineare il suo ruolo di guida nell’indagine psicosomatica, rispetto a un movimento psicoanalitico complessivamente concepito come sorta di “schiera selvaggia” al suo seguito, recuperando tra l’altro l’immagine dei territori da esplorare con cui apriva Sulla psicoanalisi dell’organico nell’uomo:
“L’interesse che le mie tesi hanno incontrato da parte della Società, e in seguito da parte di tutto il movimento psicoanalitico internazionale, costituisce per me un efficace incitamento a inoltrarmi sempre più nei campi, oggi ancora quasi inesplorabili, che mi trovo di fronte, e a renderli sufficientemente accessibili a una indagine metodica che risulti utile alla scienza” (Freud, Groddeck, 1970, 101).
Il secondo lo ritroviamo nella lettera del 9 settembre 1927 in cui, dopo essersi lamentato del giudizio negativo espresso a Freud a proposito de Il libro dell’Es, prosegue difendendo la propria linea di indagine:
“Se nessuno dei membri della Società ha osato seguire il mio incitamento… non è perché la mia strada sia sbagliata… Non posso fare a meno di pensare che le cause di questo singolare atteggiamento della Società vadano cercate nella paura della Sua disapprovazione. Si conosce il Suo parere sul Libro dell'Es, ma non si conosce, o per lo meno si finge di non conoscere, il Suo parere sull'uso della psicoanalisi nelle malattie organiche. Sono abbastanza presuntuoso da dedurre dal Suo annoso silenzio sulla mia attività che Lei la pensa pressappoco così: Groddeck ha un'idea che potrebbe servire, ma la maniera con cui egli la presenta io, Freud, non la posso approvare; deve sbrigarsela da solo e ci riuscirà. Questo è un onore per me, ma è anche un dolore, vecchio e profondo” (Freud, Groddeck, 1970, 104-5; corsivo dell’autore).
È qui chiara anzitutto l’amarezza dell’“analista selvaggio”, del condottiero rimasto senza la sua “schiera selvaggia”, ritiratasi per seguire Freud, l’unico (altro) “cacciatore selvaggio”. Groddeck si sente accolto e al tempo stesso disapprovato, sperimentando contemporaneamente orgoglioso onore e profondo dolore. E si badi: il motivo della sospettata disapprovazione da parte di Freud è proprio quel Libro dell’Es di cui Groddeck gli scriveva giusto dopo il congresso de L’Aia, paventando già in quella prima occasione di ricevere un giudizio negativo. Peccato non si sia conservata la risposta di Freud.
Conclusione
Il percorso che si è snodato lungo questi sette contributi dedicati a Groddeck ha permesso infine di tornare a interrogarsi sulla sua storica dichiarazione, “Sono un analista selvaggio”, ipotizzandone un secondo significato, più profondo di quello comunemente considerato e giocato su un codice allusivo. Si direbbe che dopo la conferenza di Groddeck questo canale comunicativo sotterraneo cessi di essere adoperato. Ma forse non è del tutto vero.
Si ricorderà infatti che, dopo avere
ascoltato la conferenza, Freud chiede a Groddeck se “quanto [ha] affermato
l’[ha] detto proprio sul serio” (Freud, Groddeck, 1970, 38). Che non si stia
per caso riferendo proprio alla provocatoria frase di apertura? Forse la sua domanda
è: “Devo prenderla sul serio quando dice di essere un analista selvaggio nel
senso che io e Lei sappiamo?”. Groddeck, è vero, risponde con la sua lettera
dell’11 settembre 1920 riferendosi al contenuto della conferenza, ma questo
significa semplicemente che sì, Freud ha da prendere sul serio quel che egli ha
detto al congresso. Dopodiché, ecco il punto nodale, prosegue senza soluzione
di continuità domandando:
“Ceteris paribus: quando viene a Baden-Baden?” (Freud, Groddeck, 1970, 38).
In altre parole: ceteris paribus (ossia stanti così le cose, dovendo Groddeck essere preso sul serio in quello che dice) quand’è che Freud si deciderà a recargli omaggio andandolo a trovare alla sua clinica, dove egli è realmente il capo, dove ha la sua “schiera selvaggia” [6]?
Da questo punto in poi non possiamo più
seguire nel carteggio questo canale allusivo di comunicazione tra i due uomini,
poiché manca la risposta di Freud a questa lettera. Ma non è privo di
significato il fatto che, nonostante i ripetuti inviti di Groddeck, Freud non
si recherà mai a Baden-Baden.
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[1]
Poiché in alcune versioni questi esseri sovrannaturali sono anime di defunti
che non hanno trovato requie eterna (come appunto nella novella di Boccaccio),
torna ad avere senso la traduzione “schiera dannata”. Si tratterebbe comunque
di denominazione applicabile solo a certe forme della leggenda e di valore
dunque limitato e parziale.
[2]
Viene qui in mente la nota frase detta da Freud a Jung nel 1909 al loro arrivo
in America: “Non sanno che portiamo loro la peste” …peccato soltanto che si
tratti di una leggenda messa in circolo da Lacan ma a quanto pare priva di
fondamento (Roudinesco, 2014, 179 n. 8). Forse però racchiude un nocciolo di
verità colto dal nesso con la leggenda: Freud e la sua “schiera selvaggia”,
portatori di conoscenze e idee sconvolgenti e “contagiose”.
[3] Accade un po’ come per il carteggio tra Freud e Jung, in cui le prime
lettere contengono in forma embrionale quelle differenze di vedute che
contribuiranno infine al drammatico epilogo della loro relazione.
[4]
Groddeck infatti scrive a Freud l’11 settembre ancora da L’Aia e sappiamo che per
parte sua Freud si trattiene nella città anche nei giorni successivi. Si vedano
in proposito Lualdi 2022d, 10 n. 5.
[5]
Per quanto mi risulta, al di là dello scritto di Simmel del 1926 non esistono
altri commenti di partecipanti al congresso che si soffermino sull’uscita di
Groddeck: non ne ho trovati in alcuno dei carteggi psicoanalitici che ho potuto
consultare. Questo può essere un indizio del fatto che in realtà la frase non
ebbe quel grande impatto sull’uditorio che probabilmente si prefiggeva di
avere.
[6]
La vera “schiera selvaggia” di Groddeck era infatti costituita dai pazienti
della sua clinica, cui egli teneva regolarmente conferenze psicoanalitiche e
con cui condivideva buona parte della sua vita. Parte di quelle sue conferenze
sono disponibili anche in italiano, in un volume la cui ricchezza è tuttora
troppo sottovalutata (Groddeck, 1978). Interessante in tal senso anche il testo
Satanarium (Groddeck, 1992), che raccoglie una trentina di fascicoli di
una pubblicazione interna della clinica di Groddeck, con cui questi intendeva
dar voce al “popolo di Satana” (questa denominazione non ricorda la “schiera
selvaggia”?). Segnalo infine che la biografia di Martynkewicz riporta in una
tavola fuori numerazione una fotografia di Groddeck attorniato dai pazienti e
dai famigliari in un momento di svago nella Foresta Nera. Si consideri che le
conferenze psicoanalitiche risalgono agli anni 1916-17; Satanarium è del
1918 e la fotografia del 1920: esattamente il periodo tra il primo contatto epistolare
con Freud e il congresso de L’Aia.
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