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Wilelm van der Vliet, Filosofo con allievi, 1626 (wikipedia) |
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Michele M. Lualdi Robert Rutherford Holt, psicologo statunitense di formazione psicoanalitica, giunse nel corso dei suoi studi a sviluppare una visione critica della teoria freudiana, tanto dal punto di vista metapsicologico quanto da quello clinico. Al pubblico italiano è forse noto principalmente per il suo volume del 1989, Freud Reappraised: A Fresh Look at Psychoanalytic Theory, tradotto da Boringhieri nel 1994 con il titolo Ripensare Freud. Il capitolo 3 del libro è dedicato allo stile argomentativo di Freud, che egli chiama “stile cognitivo” e ripropone, in parte rivisitandole, le conclusioni di ricerche svolte dall’autore diversi decenni prima, presentate per la prima volta in forma di articolo nel 1965 sulla rivista American Imago (vol. 22, pp. 167-179): Freud's cognitive style. Il tema veniva ripreso e ampliato otto anni più tardi con l’aggiunta, tra l’altro, di un interessante decalogo di consigli su come approcciare la lettura delle opere di Freud, dando origine al saggio On Reading Freud, testo riproposto in formato digitale nel 2014 dall’International Psychotherapy Institute. Ora, questo decalogo si trova anche in Ripensare Freud, a conclusione del citato terzo capitolo (Holt, 1989a, 67-8; Holt, 1989b, 76-8). A quanto mi consta il volume italiano è attualmente fuori catalogo ed è questo uno dei motivi per cui vorrei qui proporre una traduzione dei dieci punti, l’altra ragione essendo che condivido nelle linee generali il giudizio di Patrick Mahony, il quale vi vede raccolte le indicazioni basilari per accedere costruttivamente all’opera psicoanalitica di Freud (Mahony, 1987, 13-4). Ho optato per lavorare sulla versione del 1973 che differisce poco ma, in un punto, significativamente, da quella del 1989. Concluderò con alcune considerazioni sul testo in sé, sulle sue due versioni e sulla traduzione italiana del 1994, che mi daranno l’opportunità tra l’altro di motivare la mia preferenza per la versione del 1973.
Un decalogo per il lettore di Freud
R. R. Holt
1. Stai attento nell’estrapolare le frasi dal loro contesto. Questa pratica attrae molto gli autori di manuali, i critici polemici e gli psicologi clinici appassionati di ricerca, più desiderosi di non fare errori nell’analizzare le proposizioni che non di intraprendere il ponderato studio di un ampio corpus teorico. Non esiste sostituto al leggere quanto serve di Freud per coglierne il pieno significato, quasi mai del tutto espresso in un singolo paragrafo su una qualsiasi questione, non importa quanto specifica.
2. Non prendere per letterali le formulazioni estreme di Freud. Considerale come il suo modo di richiamare la tua attenzione su un punto. Quando dice “mai”, “regolarmente”, “definitivamente” e simili, continua a leggere per trovare qualificatori e attenuazioni. Ricorda il cambiamento che ha avuto luogo da quando Freud scrisse i suoi principali lavori; il consenso sociale e la rispettabilità hanno preso il posto dello shock e dell’ostilità che facevano sentire a Freud di essere una voce fioca e isolata in una fredda regione disabitata, sì che doveva gridare per farsi sentire.
3. Fai attenzione alle contraddizioni; non inciampare in esse e non sfruttarle con maliziosa soddisfazione, considerale piuttosto come formulazioni dialettiche incomplete in attesa di quella sintesi da cui lo stile cognitivo di Freud lo faceva regolarmente ritrarre.
4. Stai in guardia dal linguaggio figurato, in particolare dalla personificazione (formulazioni reificate come homunculi). Ricorda che questa c’è principalmente per colorire il discorso, anche se a volte portò fuori strada lo stesso Freud e che la cosa più corretta nei suoi confronti è fare affidamento soprattutto sulle sue affermazioni meno poetiche e meno drammatiche.
5. Non aspettarti definizioni rigorose; ricerca piuttosto i significati dei suoi termini nei modi in cui sono impiegati per un certo lasso di tempo. E non essere sgomento se trovi una parola impiegata in un posto con il suo significato ordinario e letterale e in un altro in un senso tecnico speciale e modificantesi con l’evolversi della teoria. Un’impresa come il Dizionario di psicoanalisi, assemblato da due analisti operosi ma malaccorti, che hanno tratto affermazioni simili a definizioni da molti lavori di Freud, è del tutto sbagliata per principio e rivela un totale fraintendimento dello stile di pensiero e di lavoro di Freud.
6. Sii benevolmente scettico quanto alle dichiarazioni di Freud di aver provato che qualcosa è stato dimostrato al di là di ogni dubbio. Ricorda che aveva criteri di prova diversi dai nostri attuali, che rifiutava la sperimentazione in parte perché ne aveva una concezione troppo ristretta e in parte perché la trovava stilisticamente inadatta, molto prima dei primi lavori di R. A. Fisher; inoltre tendeva a confondere un’osservazione ripetuta con una teoria verificata del fenomeno in questione.
7. Ricorda che Freud era troppo affezionato alle dicotomie, anche quando i suoi dati sarebbero stati meglio inquadrabili come variabili continue; in generale, non presumere che la teoria sia invalidata dal fatto di venire enunciata il più delle volte in una forma metodologicamente indifendibile.
8. Diffida delle capacità di persuasione di Freud. Tieni presente che era un portentoso oratore là dove la sua base scientifica era incerta. Benché fosse spesso nel giusto, non sempre lo era per le motivazioni che portava, quasi mai realmente sufficienti a comprovare la questione in oggetto, né sempre tanto ampiamente quanto egli avrebbe desiderato.
Infine, stai molto attento a non gravitare intorno a una di queste due posizioni estreme e altrettanto insostenibili, ossia:
9. Non prendere ogni affermazione di Freud come una verità profonda che può presentare difficoltà solo per la nostra inadeguatezza, la nostra difficoltà di mediocri nello stare al passo con le altezze della mente di un genio che non sempre si degnava di chiarire passaggi per lui ovvi ma che noi dobbiamo ricostruire con un laborioso lavoro esegetico. Questa è la tentazione degli studiosi interni agli istituti psicoanalitici, quei serissimi freudiani che, per la scocciatura di Freud, già iniziavano a spuntare durante la sua vita. Per la maggior parte di noi, che lavoriamo nelle università la tentazione corrispondente è quella più pericolosa di tutte:
10. Non sentirti offeso dalle deviazioni di Freud dalla purezza metodologica al punto da rifiutarlo del tutto. Quasi ogni lettore può imparare moltissimo da Freud se lo ascolta con attenzione e simpatia e non prende troppo seriamente le sue dichiarazioni.
Qualche considerazione
Come si vede, questo decalogo, scritto da un autore che conserva il pregio di avere indagato a fondo lo stile e le tecniche argomentative di Freud, non indica motivi, ma suggerisce modalità per leggere i suoi lavori. Spesso infatti, senza rendercene conto, ci soffermiamo fin troppo sui primi, che possono andare dalla semplice curiosità alle più articolate esigenze formative e di studio; ma tralasciare le seconde espone a non pochi rischi, ben sintetizzati da Holt negli ultimi due punti: prendere Freud “troppo sul serio” ossia idealizzarlo e fare della sua parola una sorta di sacro testo incontrovertibile, oppure rifiutarlo completamente perché troppo contraddittorio, quasi demonizzandolo.
Si tratta di due pericoli che si acuiscono mano a mano che il tempo ci allontana e ci rende più difficile mettere a fuoco le caratteristiche del clima culturale in cui visse e scrisse Freud, un clima in cui la comunicazione scientifica era assai differente da come la intendiamo oggi. Così, se Holt riconduce un certo alzare la voce di Freud al fatto che se egli non avesse gridato nessuno lo avrebbe sentito (punto 2), ritengo che questa sia solo una parte della verità: soprattutto se si considera che la splendid isolation descritta da Freud rievocando l’ultimo decennio circa del 1800 (Freud, 1924, 115) – e che funge da implicito sfondo dell’osservazione di Holt (“la “fredda regione disabitata”) – fu assai più relativa di quanto non ci abbia veicolato la storiografia psicoanalitica più classica (Jones, 1955, 22; Sulloway, 1979, 547).
In realtà, certi toni enfatici pare fossero la prassi nella letteratura scientifica del periodo e non di rado si arrivava all’aperto attacco contro esponenti di punti di vista opposti (Lualdi, 2020, 85 e segg.). Per citare alcuni esempi, Louis Pasteur venne attaccato così duramente per i suoi studi sul vaccino antirabbico da cadere in depressione (Ellenberger, 1970, 312, 630) e tracce di questa diatriba residuano anche nelle pubblicazioni secondarie di Freud (Freud, 1887, 221-4); le teorie del matematico Georg Cantor sugli insiemi infiniti ricevettero un’accoglienza talmente negativa da parte dei colleghi da provocare drammatiche esacerbazioni dei suoi attacchi depressivi, al punto che trascorse gli ultimi anni della sua vita in una clinica psichiatrica (vd. anche Bellos, 2010, 508-9). Infine, non andò meglio, con la proposta della teoria cinetica dei gas, al fisico Ludwig Boltzmann, che pose termine volontariamente ai suoi giorni forse anche per la forte opposizione dei colleghi (vd. anche Caforio, Ferilli, 2012, 286). Un simile ampliamento dell’orizzonte può essere applicato a un’altra considerazione di Holt, relativa all’impiego di un linguaggio figurato in Freud (punto 4). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una caratteristica piuttosto tipica della letteratura scientifica del periodo, che spesso non era esente da volute venature letterarie (Ornston, 1992, 14) e impiegava i termini in modo metaforico con tale frequenza che già Goethe aveva a suo tempo problematizzato la questione e invitava a una sorta di depurazione del linguaggio scientifico (Pörksen, 1974, 11, 18).
Considerazioni simili vano fatte anche per la retorica, su cui Holt si sofferma al punto 8, dedicato alle capacità di persuasione di Freud. Come l’autore stesso commenta in un passaggio del testo che precede il decalogo (Holt, 1973, 71; Holt, 1989b, 67-8), il persuadere con la retorica va ricondotto alle sue radici greche e dunque non è da intendersi nel senso deteriore attuale del manipolare l’altro, ma come lecita forma di argomentazione (si veda anche Marion, 2021, 13-4). Qui credo si possa riconoscere, di nuovo, una qualità stilistica da non intendersi come esclusivo appannaggio di Freud, ma che probabilmente egli sapeva impiegare più abilmente di molti altri.
Comunque sia, che si intendano le caratteristiche stilistiche appena commentate come tipiche di Freud in quanto autore (Holt) o in quanto autore del suo tempo (la mia visione), resta indiscutibile che occorre esserne ben consapevoli se si vuole accedere a una lettura di Freud che vada oltre la superficie e che porti a cogliere non solo il suo pensiero, ma anche il suo modo di pensare, conservando o riconquistando così la possibilità di attribuire un peso forse più relativo ma probabilmente più realistico a molte sue affermazioni, in un ottica di costante disponibilità al dubbio e alla rinnovata ricerca: lungi dall’essere segno di una intrinseca debolezza della pagina freudiana ciò ne mostra al contrario la profonda ricchezza.
Proseguo con il confronto da un lato tra le due versioni inglesi del decalogo, 1973 e 1989, dall’altro tra questa mia traduzione e quella proposta nel 1994 da Boringhieri.
Quanto alle due versioni inglesi, le differenze sono minime e tra queste segnalo le seguenti.
Al punto 5, solo nell’edizione 1989 Holt esplicita a quale Dizionario di psicoanalisi si riferisce: non, come forse si sarebbe indotti a pensare di primo acchito, al noto Vocabulaire di Laplanche e Pontalis, pubblicato per la prima volta in francese 1967, ma a quello assai meno conosciuto di Nandor Fodor e Frank Gaynor, uscito nel 1950. Molto verosimilmente il motivo per cui nel 1973 Holt non chiariva meglio il riferimento bibliografico è che all’epoca l’opera francese non era ancora stata pubblicata in inglese: la prima traduzione sarebbe apparsa solo l’anno dopo, il 1974. Holt non aveva dunque motivi per temere fraintendimenti: al punto che nella bibliografia di On Reading Freud nemmeno citava il dizionario americano, tanto era sicuro di essere bene inteso. Diverso certo il discorso nel 1989, quando probabilmente da un lato il dizionario americano era già praticamente uscito di scena, mentre gli addetti ai lavori si erano ormai familiarizzati con quello francese, cui dunque sarebbe andato immediatamente il loro pensiero leggendo di un “Dizionario di psicoanalisi, assemblato da due analisti”. È vero che in inglese il Vocabulaire porta il titolo di The Language of Psychoanalysis, in italiano diventa Enciclopedia e in spagnolo Diccionario, ma a prescindere dal titolo, resta senz’altro tuttora il “dizionario” psicoanalitico più diffuso, anche grazie alla sua cura e affidabilità. Pertanto nel 1989 la disambiguazione diveniva doverosa. I due periodi che costituiscono il punto 7 sono invertiti nelle due edizioni del 1973 e del 1989, ma per il resto invariate.
Infine il punto 10 rivela un’ultima differenza tra i due testi, quella che mi ha fatto optare per il testo del 1973. Se qui infatti Holt scrive che “quasi ogni lettore può imparare moltissimo da Freud” (corsivo mio), nel 1989 riduce la portata delle sue considerazioni agli psicologi, che vengono a sostituire i più generici lettori. Può darsi che ciò dipenda dal fatto che la seconda versione del decalogo è contenuta in un testo che si rivolge prevalentemente a psicologi (o meglio a psicoanalisti, tra i quali ci sono molti psicologi), tuttavia resto del parere che la prima formulazione, quella più generale, sia anche le più veritiera: la lettura di Freud ha da offrire tantissimo a chiunque vi si approcci con pazienza e buona disposizione, psicologo o meno. Ed è questo a rendere ragione tanto di un costante invito ad avvicinare i suoi scritti quanto della proposta di qualche consiglio su come rapportarsi a essi.
Infine alcune considerazioni sulle principali divergenze tra la mia traduzione e quella di Boringhieri.
Il punto 3 presenta due differenze. La prima, di poco conto, consiste nell’incipit, identico nelle due versioni inglesi: “don’t… trip over them” (corsivo mio). Mentre io rendo con: “[Fai attenzione alle contraddizioni;] non inciampare in esse…”, in Boringhieri diviene: “… non devi sorvolare” (Holt, 1989b, 77, corsivo mio). Certo si tratta di un’antitesi che non ha particolari ricadute concrete, a differenza della seconda, che riguarda il commento conclusivo, anch’esso identico negli originali inglesi: “awaiting the synthesis that Freud’s cognitive style made him consistently draw back from”. Così, mentre io traduco: “… in attesa di quella sintesi da cui lo stile cognitivo di Freud lo faceva regolarmente ritrarre”, in Boringhieri si trova esattamente l’opposto: “… in attesa di quella sintesi che lo stile di Freud gli consentirà di operare” (Holt, 1989b, 77). Scarterei però questa lettura, poiché in un passaggio precedente sia di On Reading Freud sia di Ripensare Freud (Holt, 1973, 43; Holt, 1989b, 49), l’autore dichiara che Freud, pur capace di ottime sintesi, aveva una netta preferenza per l’analisi verso la quale il suo stile lo conduceva naturalmente.
Il punto 5, nella versione di Boringhieri, risulta monco di tutta la seconda metà, quella in cui Holt si scaglia contro il Dizionario di psicoanalisi di Fodor e Gaynor. Mi risulta difficile comprendere la scelta editoriale, considerato che tale dizionario era stato tradotto in italiano nel 1967 da Feltrinelli e poteva dunque essere noto al pubblico nostrano, privato in tal modo di uno stimolo alla riflessione. Tra l’altro il testo viene comunque doverosamente riportato in bibliografia (Holt, 1989b, 408), benché nella sua edizione inglese del 1950 e benché mai citato nel corso del volume.
Similmente al punto 6, Boringhieri tralascia del tutto il riferimento a Fisher (che pure, nuovamente, riporta in bibliografia pur senza mai citarlo nel corso del volume e conservando tra l’altro l’errato anno di pubblicazione dell’edizione inglese, il 1945; si veda Holt, 1989b, 408), sulla cui importanza devo però soffermarmi più dettagliatamente. Holt sta qui riprendendo una considerazione contenuta in un passo precedente e presente tanto in On Reading Freud (Holt, 1973, 55) quando in Ripensare Freud (Holt, 1989b, 62), che suona all’incirca così:
“… i primi tentativi scientifici di Freud precedettero considerevolmente l’invenzione della statistica, la teoria del campionamento o il disegno sperimentale. In quei giorni precoci, quando si sentiva assai più sicuro nelle sue vesti di scienziato, Freud studiava la neuroanatomia al microscopio e, al pari dei suoi rispettati docenti e colleghi, generalizzava ampiamente e automaticamente da un campione di una unità!” (Holt, 1973, 55; corsivo mio) .
Citare dunque nel decalogo il lavoro di Fisher significa anzitutto consentire al lettore di ricollegare alcune caratteristiche degli studi freudiani alla cornice storica in cui videro la luce, sì da comprendere che avrebbe poco senso criticare certe ingenuità “statistiche” a Freud, avendo egli agito in accordo alle conoscenze dell’epoca. Ma proprio qui è a mio parere il punto problematico, nella definizione di questa cornice storica che, secondo Holt, implicava ampie e automatiche generalizzazioni da campioni di una unità . Ebbene, ecco cosa scopriamo interrogando i troppo poco considerati lavori neuroanatomici di Freud. Il saggio sui testicoli delle anguille del 1877 è il frutto dell’esame di “circa 400 anguille” (Freud, 1877a, 419). Ci sono poi i due saggi sul Petromyzon, nel primo dei quali si afferma che l’indagine è stata condotta “su un gran numero di esemplari” (Freud, 1877b, 16), e nel secondo, allorquando Freud descrive il metodo impiegato, parla sempre al plurale dei petromizonti indagati (Freud, 1878, 99 e segg.). Nel 1879 pubblica una breve nota su un metodo di colorazione del tessuto nervoso degli animali. Anche in questo è caso è esplicito nell’affermare di averlo applicato non solo a diversi animali, come topo e coniglio, ma anche a tessuto nervoso proveniente da bambini (Freud, 1879, 468). Infine, nel 1882 viene pubblicato il pregevole studio sul gambero di fiume. Già in apertura Freud dichiara di avere eseguito le sue osservazioni “nei mesi estivi del 1879 e del 1881” (Freud, 1882, 9). Se già è controintuitivo immaginarlo impegnato con un unico esemplare per un periodo di due stagioni (circa sei mesi), dobbiamo deciderci a scartare del tutto questa ipotesi quando ci spiega di avere studiato preferibilmente tessuto vivo e che “la coagulazione del sangue sotto il vetrino pone fine, dopo un massimo di 15 minuti, all’osservazione” (Freud, 1882, 11). Si aggiunga a ciò la dichiarazione di avere sottoposto a indagine tanto il gambero di fiume quanto l’astice (Freud, 1882, 20). In nessun caso, dunque, abbiamo prove di campioni di una unità. Vediamo ora quali generalizzazioni proponeva Freud in quei “giorni precoci”:
“Non è certo consentito trasferire senza ulteriori considerazioni la struttura riconosciuta nel tessuto nervoso del gambero di fiume, di incerto significato fisiologico, ai corrispondenti elementi di altri animali; tuttavia…” (Freud, 1882, 32).
Non mi pare proprio un’estensione automatica dei risultati…
Ma si può procedere oltre l’ambito strettamente neuroanatomico, ricordando lo studio sull’enuresi notturna nella prima infanzia, del 1893, fondato sui risultati dell’esame di un gruppo di bambini (Freud, 1893a), fino ad arrivare all’altro capo della produzione neurologica di Freud, con la trilogia dedicata alle paralisi cerebrali infantili, frutto di studi su veri e propri campioni di soggetti. Certo, restano campionamenti privi delle complessità matematiche cui la statistica ci ha oggi abituati: questo – e null’altro – trova esaustiva spiegazione nelle considerazioni storiche di Holt: la statistica era ancora di là da venire. In ogni caso chi, giusto per fare un esempio, si cimenti nello studio delle tabelle che accompagnano il volume sulle diplegie (Freud, 1893b, ad es.: 217-8, 226, 230) le troverà tutt’altro che semplici. Beninteso, non che non ci siano lavori neurologici di Freud incentrati sul caso singolo, ma a parte il fatto che essi non riguardano più la neuroanatomia (su cui si concentrano le considerazioni di Holt), va detto che non sono distanti dai "case reports" che ancora oggi affollano la letteratura scientifica. Cito qui, giusto per fare un esempio, il lavoro sull’emianopsia infantile del 1888 (Freud, 1888). D’altra parte lo stesso Holt afferma che, contrariamente a quanto possa sembrare a prima vista, nei lavori psicoanalitici Freud non fonda le sue conclusioni su un singolo caso (Holt, 1973, 60-1; Holt, 1989b, 62 n. 7): avremmo dunque un Freud avvezzo a lavorare su campioni singoli in neuroanatomia ma che diffidò dello stesso metodo indagando la psiche, campo peraltro che egli studiò per la maggior parte prima del citato volume di Fisher, considerato il 1935 come data della sua prima edizione. Nulla di ciò a parer mio: in entrambi gli ambiti lo sguardo di Freud oltrepassò il caso singolo, perché (anche) questo aveva appreso dalla rigorosa Scuola di medicina di Vienna, dove si era formato come medico e aveva condotto i suoi studi neuroanatomici. Vi è dunque più continuità di metodo di quanto la differenza negli oggetti d’indagine non lasci pensare. Un significativo segnale di questa continuità ce lo offre la famosa lettera a Fließ del 21 settembre 1897, anno centrale nell’evoluzione di Freud e del suo pensiero (Lualdi, 2020) e a cavallo tra la conclusione del suo impegno neurologico e le prime importanti indagini psicoanalitiche. In essa viene affrontato il nodo fondamentale della supposta realtà del trauma sessuale rievocato dai pazienti in terapia e vengono indicati i motivi per cui tale realtà viene ora messa in dubbio. Tra questi:
“La sorpresa che in tutti i casi la colpa fosse sempre da attribuire padre” (Freud, 1985, 207; primo corsivo mio, secondo dell’autore).
Come si vede, si tratta niente meno che di una considerazione sulla frequenza (concetto statistico) del fenomeno . Si capirà che il punto va in parte al di là del decalogo di Holt, e investe due questioni di diverso tipo. La prima è relativa all’importanza di consultare direttamente i lavori neurologici di Freud: la loro assenza dal panorama editoriale può esitare infatti in ricostruzioni approssimative. Di nuovo dunque troviamo valido l’invito di Holt a leggere Freud, che possiamo ora estendere alle sue opere preanalitiche. La seconda questione ha a che fare con l’immagine che possiamo crearci di Freud come ricercatore. Classicamente si è voluto vedere in lui un poco abile sperimentatore (Lualdi, 2017, 11-2), ma più mi inoltro nei suoi testi preanalitici, più a me pare che fosse decisamente al passo con i tempi e che non avesse nulla da invidiare ad altri studiosi contemporanei anche dal punto di vista delle abilità e della logica delle indagini. A tal proposito, come visto, Holt afferma che fosse prassi la generalizzazione dal caso singolo. Tuttavia – e su questo concludo – nei testi di neuroanatomia di fine ‘800-inizio ‘900 che ho consultato in questi anni lavorando ai primi scritti di Freud non ricordo di avere mai trovato ricercatori che si riferissero a campioni di una sola unità. Mi vengono in mente al contrario esempi opposti e mi basti qui citare Szymon Syrski, sul cui lavoro si fondava quello già citato di Freud sui testicoli delle anguille: lo zoologo polacco esaminò 176 esemplari di animale prima di decidersi a comunicare le proprie conclusioni (Syrski, 1874, 316).
Bibliografia
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Ringrazio il Prof. Carlo Bonomi per avermi fornito il decalogo nella versione inglese del 1989. Naturalmente resto l’unico responsabile delle considerazioni che farò in questa nota.
Holt lo indica come risalente al 1945, tuttavia mi risulta che fu pubblicato nel 1935 e che negli anni ’40 videro la luce la terza, la quarta e la quinta edizione, ma nessuna nel 1945 (rispettivamente: 1942, 1947, 1949). Si veda in tal senso Fisher, 1935, colophon.
Così in Ripensare Freud: “Si ricordi inoltre che i primi tentativi scientifici di Freud precedettero di molto la statistica, la teoria dei campioni o il disegno sperimentale. Agli inizi, quando era maggiormente fiducioso nel suo ruolo di scienziato, egli studiava la neuroanatomia al microscopio, come i suoi riveriti maestri e colleghi, e formulava generalizzazioni liberamente e automaticamente a partire da campioni di formati da un unico elemento!”.
Poiché in realtà dalla versione Boringhieri non si deduce questo, ossia che Freud avesse in comune con maestri e collegi la generalizzazione ampia e automatica, ma solo il fatto di studiare neuroanatomia al microscopio, riporto l’originale nella versione del 1973, in cui si ha: “In his early days… Freud was studying neuroanatomy at the microscope, and like his respected teachers and colleagues, generalizing freely and automatically from samples of one!”
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