Selbstprüfung: avvio e origini dell'autoanalisi di Freud
Sigmund Freud nel 1885 (autore sconosciuto; fonte: wikimedia). |
Michele M. Lualdi
L’autoanalisi di Freud rappresenta un affascinante capitolo sia della sua biografia sia della fondazione della psicoanalisi. Tra le molte domande che si sollevano attorno a essa (possibile o impossibile, finita o infinita, ecc…) quella di cui vorrei qui tentare una risposta riguarda il momento in cui essa prende avvio. Non si tratta solo di una questione di pura cronologia, che considero peraltro importante dal punto di vista degli studi storici e biografici (su ciò non particolarmente soddisfacenti, come si vedrà), quanto soprattutto della possibilità che intravedo di trarne interessanti conseguenze sull’essenza stessa del processo autoanalitico intrapreso da Freud. Cercherò di mostrare come l’incipit dell’autoanalisi si faccia sfuggente e indistinto mano a mano che si tenta di metterlo a fuoco, costringendoci a spostare l’asse della riflessione dal concetto di “avvio” a quello meno puntuale ma più fertile di “origini”.
Caput Nili: i primi passi
Cercare di stabilire l’avvio dell’autoanalisi di Freud è molto simile alla storica ricerca delle sorgenti del Nilo: si viene costantemente rinviati a un punto più a monte di quello in cui ci si trova.
Non si può non partire da Ernest
Jones, che dedica al tema un intero capitolo del primo volume della sua biografia
freudiana (Jones, 1953a, 386 e segg.), un capitolo dai toni rigorosamente epici
[1]
e in cui non si esita a chiamare in causa le fatiche del mitologico Ercole per
chiarire lo spessore dell’impresa freudiana (Jones, 1953a, 387).
L’autore ci offre inizialmente un
dato cronologico tanto netto quanto problematico. Afferma infatti che
l’autoanalisi prende avvio nel “luglio 1897” (Jones, 1953a, 391)… dimenticandosi
però che solo qualche decina di pagine prima l’ha fatta partire nel “giugno di
quello stesso anno” (Jones, 1953a, 320). Né si pensi a un errore di traduzione,
poiché anche l’originale inglese oscilla tra giugno prima (Jones, 1953b, 296) e
luglio poi (Jones, 1953b, 323)[2].
Ora, non è certo un mese in più o in
meno a fare la differenza: si tratta evidentemente di una svista che ben si perdona,
considerata la mole di date e notizie che l’autore ha dovuto gestire per venire
a capo di una tanto ampia e documentata biografia. La questione importante è
che l’anno in sé, il 1897 – giugno o luglio che sia – si rivela tutt’altro che
definitivo. Lì, specifica Jones, è da collocarsi soltanto l’inizio della
seconda fase dell’autoanalisi, quella definita “sistematica”, non il suo inizio
in senso assoluto. Per giunta Max Schur, sulla base dello studio delle lettere
a Fließ, avvia la prima retrodatazione: già agli inizi di novembre dell’anno
precedente, il 1896, Freud sarebbe impegnato nell’“autoanalisi sistematica”
(Freud, 1985b, 233 n. 1) come reazione alla morte del pare Jacob avvenuta pochi
giorni prima, il 23 ottobre.
Ma siamo comprensibilmente ancora
distanti dal caput che ci interessa. Se,
a prescindere da quale sia il preciso momento di avvio dell’autoanalisi “sistematica”
(attribuzione di cui in realtà non viene mai ben chiarito il significato [3]),
essa è preceduta da una fase di autoanalisi più saltuaria, che forse potremmo
definire “al bisogno”, allora per raggiungere i nostri obiettivi dovremo ulteriormente
retrocedere nel tempo. Anche in questo caso Jones ci viene in soccorso e ci
offre un dato ben preciso:
“Il vero e proprio inizio può essere ricondotto a quella storica occasione del luglio 1895, quando per la prima volta Freud analizzò a fondo uno dei suoi sogni” (Jones, 1953a, 391).
E poiché il riferimento è all’interpretazione del noto sogno dell’iniezione a Irma, si può essere ancora più specifici indicando persino il giorno: il 24 (Jones, 1953a, 425).
La questione sembrerebbe ora risolta, il caput Nili trovato: con avvio il 24 luglio 1895 si avrebbe una prima fase di analisi occasionale, cui verrebbe a sostituirsi, dall’ottobre 1896 (Schur) o dal giugno/luglio 1897 (Jones) un lavoro su di sé più sistematico, cui Freud non rinuncerà mai più (Jones, Clark). Ed effettivamente questi restano gli estremi cronologici entro i quali si muovono i biografi di Freud, spesso tuttavia delineando quadri approssimativi e non privi di una certa incoerenza interna, che almeno a volte sembra frutto della rinuncia a un’esplicita distinzione tra analisi saltuaria e sistematica.
Didier Anzieu, nel suo corposo volume del 1975
dedicato espressamente al tema, indica il 1895 come anno di avvio
dell’autoanalisi, anche se non risulta chiaro se con ciò intenda riferirsi a un
momento preciso del 1895, come fa Jones ancorandosi all’interpretazione (o
meglio, autointerpretazione) del sogno dell’iniezione a Irma o se voglia più
genericamente richiamarsi all’anno nel suo complesso, durante il quale Freud
avrebbe sofferto, questa la sua ipotesi, di una crisi di mezza età (Anzieu,
1975, 235-7, 247).
Nel 1979 Frank Jones Sulloway, in un
articolato discorso volto a smascherare l’autoanalisi come uno dei “miti” della
storiografia psicoanalitica, si sofferma molto puntualmente sul tema. Conserva
la distinzione tra analisi occasionale e sistematica o “formale” (Sulloway,
1979, 237 n. 50) e si concentra in particolare su quest’ultima individuandone
l’inizio, sulla base delle lettere di Freud a Fließ, nell’agosto del 1897 (Sulloway, 1979, 229). Cita inoltre vari autori i quali
propongono datazioni diverse ma sempre comprese nel classico intervallo temporale
stabilito da Jones: Henry Ellenberger ed Edith Buxbaum si assestano sul luglio
del 1895 (Sulloway, 1979, 229 n. 42), mentre Ernst Kris ed Erik Erikson, in
sintonia con Jones, considerano il luglio 1897 (Sulloway, 1979, 237 n. 50).
Un anno dopo, Ronald William Clark
afferma in prima battuta che Freud “aveva cominciato ad analizzarsi in seguito
alla morte del padre” (Clark, 1980, 17), forse abbracciando l’ipotesi di Schur,
ammesso che per autoanalisi intenda implicitamente solo quella sistematica. Ma
più avanti afferma, con maggior precisione: “Nel 1897 [Freud] cominciò ad
affrontare lo scottante compito dell’auto-analisi” (Clark, 1980, 154), tenendosi
più vicino alla posizione di Jones… se non fosse che dopo circa venti pagine di
nuovo cambia versione affermando, con non indifferente approssimazione, che
l’autoanalisi sarebbe iniziata “molti mesi prima del 1897” (Clark, 1980, 175).
Peter Gay, a fine anni Ottanta, affronta
più criticamente la questione, offrendoci tra l’altro spunti sui quali
torneremo. Ma per quanto riguarda gli aspetti cronologici non propone nulla di
nuovo e scrive che l’autoanalisi di Freud “ha inizio intorno alla metà degli
anni novanta e lo impegna sistematicamente a partire dalla tarda primavera o
dall’inizio dell’estate del 1897” (Gay, 1988, 88). Se da un lato questa
perplessità tra “tarda primavera” e “inizio dell’estate” può essere nient’altro
che un’eco della corrispondente imprecisione di Jones, che come visto indica
prima il mese di giugno e poi quello di luglio, la vaghezza di “intorno alla
metà degli anni novanta” lascia insoddisfatti. C’è in verità un punto che
potrebbe destare qualche speranza di approfondimento nel lettore, allorquando
Gay riporta una frase di Freud secondo la quale egli avrebbe iniziato a
rivolgere il proprio interesse ai ricordi dell’infanzia “a trentaquattro anni” (Gay,
1988a, 88-9), quindi nel 1890. L’entusiasmo è però destinato a scemare
rapidamente: si tratta infatti solo di uno spiacevole refuso dell’edizione italiana,
l’originale inglese riportando, conformemente al testo di Freud citato quale
fonte, “quarantatré anni” (Freud, 1901, 98; Gay, 1988b, 97) e dunque riferendosi
al 1899 [4].
Christfried Tögel, nel suo Diarium,
vera e propria, ricca cronistoria di Freud, fa risalire l’inizio
dell’autoanalisi al luglio 1897 (Tögel, s. d., 128) citando come unica fonte
Jones ed evidentemente non cogliendo la titubanza di questi tra giugno e
luglio.
Pochi anni fa, élisabeth Roudinesco, proponendo come
Sulloway una letura dell’autoanalisi quale leggenda cara agli psicoanalisti, si
limita a indicarne l’avvio “nell’agosto 1897” (Roudinesco, 2014, 60-1).
E ancor più recentemente, anche
Peter-André Alt si assesta sulle consuete posizioni, anch’egli peraltro con una
ricostruzione non priva di incongruenze interne. Come momento di inizio cita
infatti dapprima il 1896, specificando: “dopo la morte del padre” (Alt, 2016,
24). Più avanti, in un paragrafo espressamente dedicato all’argomento, colloca
l’esordio nel luglio 1897 (Alt, 2016, 252) per indicare, solo due pagine più
avanti, il 1895 come anno di avvio (Alt, 2016, 254). Il tutto senza alcun
esplicito riferimento alla distinzione tra autoanalisi occasionale e
sistematica.
Credo colpisca, in questa rapida
carrellata di contributi, tanto l’approssimazione delle posizioni degli autori
quanto il loro non andare sostanzialmente oltre le indicazioni di Jones.
Caput Nili:
proseguendo l’indagine
Eppure ritengo possibile volgere lo sguardo ancora più indietro, aprendosi a prospettive temporali di più ampia portata che, come cercherò di mostrare, fruttano il valore aggiunto di inquadrare diversamente il fenomeno costituito dall’autoanalisi di Freud.
In tal senso ho già sottolineato
altrove (Lualdi, 2019, 62; Lualdi, 2020, 17) un interessante passaggio della
lettera di Freud a Fließ del 24 gennaio 1895, che vorrei qui riprendere e
analizzare più in dettaglio:
“Manca soltanto una settimana all’operazione [forse un intervento di Fliess su Emma Eckstein], o perlomeno ai suoi preliminari. Il tempo è passato in fretta e io mi sottraggo volentieri a un autoesame per scoprire con quale diritto mi attenda tanto da essa” (Freud, 1985b, 131 e n. 4; parentesi quadre e corsivo miei).
Si parla qui di un “autoesame” come di una pratica per Freud evidentemente non nuova, cosa che ci porta a pensare che egli indugi in momenti di “autoesame” già prima del 1895. Che poi non si periti di chiarire meglio al suo interlocutore cosa sia questo “autoesame” può certo indicare che gliene ha già parlato in precedenza, ma in tal caso sarebbe o in una lettera smarrita oppure in un incontro tra i due avvenuto di persona, in quanto nel loro carteggio non vi sono altri riferimenti al tema. è tuttavia possibile che questa assenza di chiarimenti trovi un’altra spiegazione, che devo però al momento rimandare.
In ogni caso, ai nostri fini la
questione fondamentale è se possa esserci un qualche nesso tra l’autoanalisi su
cui si sono concentrate le ricostruzioni di Jones, Schur e di tutti gli altri
autori citati e questo “autoesame”, termine con cui, correttamente e
letteralmente, viene tradotto l’originale Selbstprüfung
[5]
(Freud, 1895a, 106). Poiché ad “autoanalisi” corrisponde il tedesco “Selbstanalyse”,
un primo giudizio indurrebbe a escludere qualsiasi sovrapponibilità tra
autoesame e autoanalisi essendo diversi i due significanti impiegati da Freud. Considerato
però che il termine stesso “psicoanalisi” fa la sua comparsa solo nel marzo 1896,
nel lavoro originariamente scritto e pubblicato in francese L’eredità e l’etiologia delle nevrosi (Freud, 1896, 297), è chiaro che nel gennaio 1895
Freud non può avere a disposizione nemmeno il termine “autoanalisi” e se anche
vuol riferirsi a ciò che indicherà poi
come autoanalisi, deve per forza di cose ricorrere a qualche altra espressione.
Tutto sta a vedere se Selbsprüfung
possa ritenersi un buon candidato in tal senso. Di certo, in ogni caso,
l’episodio raccontato nella lettera a Fließ ben si adatta all’idea di una
tecnica impiegata in questa fase da Freud “al bisogno” o occasionalmente.
Questioni di stile
Non si può approfondire l’indagine di Selbsprüfung se non chiarendo preventivamente alcune caratteristiche della scrittura di Freud. Infatti, avere a che fare con la pagina freudiana è molto spesso assai più che (cercare di) afferrare i concetti che vi si vanno delineando: è anzitutto questione di stile. è stato detto a ragione che la scrittura di Freud è ben diversa a quella di molti medici e accademici del suo tempo (Ticho, 1986, 228; Mahony, 1987, 11), tuttavia in genere questa considerazione viene riferita alla sua opera psicoanalitica. Ingiusta restrizione, poiché anche i cosiddetti scritti “preanalitici” [6] si lasciano apprezzare per una composizione stilistica spesso peculiare e affascinante [7]. Anzi, forse proprio in tali lavori la componente stilistica spicca maggiormenente, perché in qualche modo più accessoria e meno attesa, dato il rigore delle discipline cui essi afferiscono (in particolare neuroanatomia, neurofisiologia, neuropatologia): chiaro segno che si tratta di un’impronta voluta e caratteristica del loro autore e che dunque sicuramente ancor più ha modo di emergere in un genere letterario quale l’epistolare, il cui unico vincolo, tolte le forme proprie della lettera, è farsi comprendere da un ben definito destinatario, Fließ nel nostro caso.
Tra i diversi elementi che vanno a
costituire lo stile freudiano, quello cui intendo qui riferirmi è l’allusione,
la tacita citazione di autori classici (Ornston, 1992, 14) attraverso l’impiego
di termini ben precisi, espressioni, figure del discorso, ecc... Freud non ha
bisogno di esplicitare queste allusioni perché può contare sul fatto che i suoi
lettori, appartenenti al suo ambiente culturale, le coglieranno immediatamente:
formatisi in un sistema scolastico che impone regolarmente di mandare a memoria
interi brani di letteratura, i sudditi dell’impero austro-ungarico di fine ‘800
godono infatti di una ricca “biblioteca mnestica” cui accedono con facilità e
piacere. Per farsi un’idea della situazione, ecco cosa racconta Martin Freud a
proposito della memoria del padre:
“Un giorno venne a farci visita in Berggasse 19 un caro amico di mio padre… ed io fui invitato a recitare in greco i primi versi dell’Iliade di Omero. Iniziai con entusiasmo ma dopo qualche riga avevo perso il filo e stavo per ricominciare da capo. Percependo il mio imbarazzo, papà riprese la recitazione esattamente là dove mi ero interrotto, proseguendo con una disinvoltura e sicurezza superiori alla mia. Quei versi io li avevo imparati solo poche settimane prima, mentre mio padre non li recitava da più di trent’anni” (Freud M., 1957, 40).
Ma se da un lato, proprio grazie a un pubblico di lettori dotato di memoria ben educata e strenuamente esercitata, Freud può permettersi il lusso di alludere senza citare esplicitamente, dall’altro deve comportarsi così se intende raggiungere tramite i suoi scritti certi obiettivi: creare una sorta di sottotesto capace di aumentare la godibilità della lettura (e, possiamo supporre, della scrittura) anzitutto arricchendo il significato di un singolo termine, di un’espressione o di un passaggio del testo di quelle sfumature e connotazioni poste in essere dall’associazione con l’opera dell’autore alluso, in secondo luogo stabilendo un’implicita complicità lettore-autore del tipo: “so che sai e so che sai che io so che tu sai”. Tutto questo non è possibile con la citazione diretta che, se non richiesta di necessità dal testo, rischia di ridursi a mero sfoggio di cultura. Essa ha certo il vantaggio di essere immediatamente comprensibile a tutti, ma così come guasta il piacere della lettura a chi conosce l’autore citato, che si vede offerto un inutile surplus, allo stesso modo non regala alcun valore aggiunto, in termini di associazioni, connotazioni e sfumature di significato, al lettore che di quell’autore è completamente digiuno.
Elegante impreziosimento stilistico,
l’allusione ha però, potremmo dire, “i decenni contati”: mano a mano che
lettore e autore si distanziano per tempo (e ambiente) finisce infatti per
essere troppo nascosta e muore asfittica,
senza nessuno che più la colga [8].
Ora, proprio questo ritengo sia il destino toccato in sorte a Selbstprüfung, termine allusivo che ha subìto un duplice impoverimento: quello dello scorrere del tempo, che ha reso vaghi i rimandi in esso impliciti e – per noi – quello della traduzione, che l’ha ulteriormente appiattito rendendolo con un equivalente italiano che risulta privo di una qualsiasi eco storico-letteraria [9].
Mentre dunque al berlinese Wilhelm
Fließ, uomo di scienza e di vasta cultura, questo spessore di rimandi non
poteva sfuggire, oggi noi dobbiamo più verosimilmente affidarci all’indagine
filologica per cogliere questa trama di richiami. Soprattutto perché la lettera
di Freud ci arriva da un’altra lingua e da un altro contesto temporale e
culturale, con i cui autori non abbiamo sempre una sufficiente dimestichezza.
Esaminando
Selbstprüfung
è Alt a offrirci un buon indizio per avviare un’indagine filologica di Selbstprüfung. Nella sua recente e corposa biografia freudiana (Alt, 2016, 613), discutendo delle fonti di Introduzione alla psicoanalisi e più in particolare della famosa frase: “[l]’Io… non è padrone in casa propria”, riporta il precedente e sovrapponibile commento del filosofo e teologo tedesco Friedrich Wilhelm Hildebrandt (1811-1893), sicuramente noto a Freud.
Alt sembra quasi stupirsi del fatto
che Freud, nelle sue Lezioni, non lo citi
come fonte della sua affermazione [10],
ma ritengo si tratti proprio di una di quelle situazioni in cui non solo egli può
a ragione pensare (o quantomeno sperare) che i suoi lettori e ascoltatori la
colgano in piena autonomia, ma soprattutto l’esplicitazione svilirebbe il
discorso, togliendogli quell’elemento di godimento dell’ascolto e della lettura
dato da una complicità con l’autore fondata sul “sapere che l’altro sa che io
so” e che, come detto, solo l’allusione non smascherata rende possibile.
In ogni caso, grazie all’accenno di
Alt, alle fonti da lui citate e a quella biblioteca universale che può essere
internet, risaliamo agilmente all’intero passaggio di Hildebrandt, che riporto e
faccio seguire da una mia traduzione:
“Wenn es aber so ist, – welcher vernünftige Grund könnte uns dann abhalten, bei einzelnen Fragen der Selbstprüfung, und zumal bei der einen grossen Hauptfrage: Wer denn eigentlich Herr im Hause bei uns Sei? die Winke des Traumlebens wohl zu beachten!”
“Se però è così – quale ragionevole fondamento ci potrebbe allora distogliere, in merito ad alcune questioni d’autoesame e soprattutto per l’importante questione principe: [‘]Ma in realtà chi è il padrone in casa nostra?[’], dal tener ben conto dei suggerimenti della vita onirica!”
Il passaggio è tratto dalla pagina 55 del saggio del 1875 Der Traumund seine Verwerthung für’s Leben. Eine psychologische Studie [Il sogno e il suo sfruttamento per la vita. Uno studio psicologico], testo, come ci ricorda Alt (Alt, 2016, 275), ampiamente citato da Freud nel primo capitolo de L’interpretazione dei sogni, in cui viene commentata la letteratura scientifica sul sogno. Aggiungo che la pagina 55 è anche una delle 28 (sulle 60 totali) che risultano segnate nella copia del saggio posseduta da Freud e da lui portata con sé nel suo esilio londinese (Davies, Fichtner, 2004, 255). In particolare, come si vede nell’immagine sottostante, Freud appone qui un unico segno verticale sul margine destro del foglio, a inizio del capoverso che contiene nel suo finale il nostro termine, Selbstprüfung: vi si parla, giusto per rimanere in tema di Selbst, di come il sogno consenta di approfondire la conoscenza di se stessi (Selbsterkenntniss).
Figura 1: pagina 55 della copia di Freud del saggio di Friedrich Wilhelm Hildebrandt Der Traum und seine Verwerthung für’s Leben. Eine psychologische Studie. Quello a sinistra è l’unico segno apposto da Freud (per gentile concessione del Freud Museum di Londra, di cui ringrazio il curatore Bryony Davies). |
Non ci si
discosta molto dalla freudiana interpretazione dei sogni, intesa come “via
regia” all’inconscio con finalità terapeutiche: anche qui un impiego/sfruttamento
del sogno a vantaggio della vita diurna.
Ancor più
nello specifico, se la Selbstprüfung
di Hildebrandt tanto si lega alle questioni oniriche, certo non più lasso è il
rapporto tra queste e l’autoanalisi di Freud per come la conosciamo
classicamente. Infatti, così come L’interpretazione
dei sogni si fonda in buona parte sulle autointerpretazioni oniriche di
Freud, Jones – abbiamo visto – individua proprio in una di esse (il sogno dell’iniezione
a Irma) l’avvio dell’autoanalisi e più in generale nell’interpretazione dei
sogni uno dei suoi due pilastri, l’altro essendo lo studio della sessualità
infantile (Jones, 1953a, 387-8; ma anche Gay, 1988, 89-90).
Freud
inoltre apprezza molto il volume di Hildebrandt: infatti oltre a portarlo con
sé a Londra, quando è costretto a selezionare solo una parte della sua ricca
biblioteca, così ne parla ne L’interpretazione
dei sogni:
“… il contributo formalmente più compiuto e più ricco all’indagine onirica” (Freud, 1899, 71).
Purtroppo non sono riuscito ad appurare se già nel gennaio 1895, quando scrive a Fließ parlando del proprio autoesame/Selbstprüfung, Freud abbia già letto il testo di Hildebrandt. E certo sarebbe stato più confortante scoprire, alla pagina 55 della sua copia, una sottolineatura della frase a noi cara. Ma dobbiamo accontentarci del laconico segno a inizio del capoverso che la contiene e vedremo peraltro che il fatto non è così fondamentale.
In ogni caso, il raffronto tra
l’impiego del termine Selbstprüfung
da parte di Hildebrandt e il classico concetto di autoanalisi resta molto
suggestivo e rivela che davvero quel termine tedesco pre-freudiano copre aree
concettuali più tardi di pertinenza del nuovo sostantivo “autoanalisi”/Selbstanalyse. Val dunque la pena
approfondire ulteriormente l’indagine cercando se esistano ulteriori connotazioni
possedute da questo termine, utili alla nostra indagine ma purtroppo non debitamente
conservate dall’italiano “autoesame”.
Prezioso
è in tal senso il Deutsches Wörterbuch
dei fratelli Grimm che, in riferimento a tale lemma,
oltre a confermare il significato più letterale di “autoesame” (“Selbstprobe”),
ci arricchisce di due ulteriori informazioni.
La
prima è una definizione latina del termine che non spiacerà certo a psicologi e
psicoanalisti: “descensus in se ipsum”, discesa in se stessi. Si rende qui
esplicita una dimensione profondamente introspettiva e dinamica che ben si
accorda con l’analitica “discesa agli inferi” sulla quale si apre, con il motto
“…Acheronta movebo”, L’interpretazione dei sogni, testo per
giunta, come detto, strettamente legato all’autoanalisi di Freud.
La
seconda informazione dataci dai Grimm è un riferimento a Goethe, senz’altro uno
dei principali modelli di Freud e non solo per lo stile. Più nello specifico essi
rinviano a un saggio del 1825 [11]
dedicato dall’autore alla meteorologia, il cui ultimo paragrafo titola appunto Selbsprüfung e si apre così:
“Während man mit dem Wagestück, wie vorstehender Aufsatz, beschäftigt ist, kann man nicht unterlassen, sich auf mancherlei Weise selbst zu prüfen, und es geschieht dies am allerbesten und sichersten, wenn man in die Geschichte zurücksieht” (Goethe, 1834, 280).
“Mentre si è impegnati in un’impresa audace come il precedente saggio, non si può tralasciare di mettersi alla prova in svariati modi e questo riesce al meglio e certissimamente se ci si volge indietro alla storia”
Nel prosieguo del paragrafo, Goethe inserisce le proprie ipotesi sull’origine dei fenomeni atmosferici nel contesto dell’evolvere storico del pensiero scientifico, con interessanti riflessioni inerenti la metodologia della scienza. Ma gli aspetti che qui ci interessano sono altri.
Anzitutto
l’ancoraggio dell’autoesame allo sguardo che si volge indietro, alla storia. Di
nuovo, seppure questa volta in maniera a mio parere meno diretta e forse un
poco meno convincente, possiamo trovare un nesso con l’autoanalisi freudiana in
quanto sguardo rivolto alla ri-scoperta e interpretazione della storia, questa
volta individuale. Si consideri che suo principale materiale di lavoro e banco
di prova restano i sogni, che proprio nella storia individuale, più in
particolare nell’infanzia, affondano le loro radici.
Ma
soprattutto la Selbstprüfung è per
Goethe parte irrinunciabile di un metodo scientifico, o meglio ancora, di un
approccio alla scienza che richiede al ricercatore di monitorare costantemente
e con rigore se stesso. A ben guardare, ciò resta implicitamente vero anche per
il discorso fatto mezzo secolo più tardi da Hildebrandt, che pone la Selbstprüfung tra i leciti fondamenti
dell’interrogarsi dell’uomo su se stesso. E per noi ancor più rilevante è il fatto
che essa impronta anche l’approccio di Freud alla ricerca scientifica ben prima
della fondazione della psicoanalisi. Scrive per esempio nell’inedito del 1887, Introduzione critica alla neuropatologia:
“è questo però il luogo in cui richiamare l’attenzione su significative fonti di errore abbarbicate a questi metodi e in conseguenza delle quali, se si procede senza critica, si può essere tentati di dimostrare una cosa come il suo contrario” (Freud, 1887, 165-6).
Nel paragrafo da cui è tratto il passaggio, Freud prende in considerazione vari metodi a disposizione del ricercatore per raccogliere dati neuroanatomici e neuropatologici. Tuttavia ha ben chiaro che per validare i risultati dell’indagine non basta il fatto che tali metodi siano approvati dalla comunità scientifica: altrettanto fondamentale è l’atteggiamento con cui il singolo ricercatore si pone di fronte ai dati raccolti e che deve caratterizzarsi per la capacità di resistere alle “tentazioni” di piegarli al proprio volere, in tal modo distorcendoli [13].
L’importanza
che Freud attribuisce a questo aspetto è confermata dal fatto che esattamente
dieci anni più tardi, nel suo più valido contributo alla clinica neurologica, La paralisi cerebrale infantile, un paio
di commenti al lavoro di alcuni ricercatori (in prevalenza francesi) suonano
chiaramente come un secco rimprovero per non avere essi esercitato la
disciplina dell’autoesame facendosi irretire da un’urgenza “psicologica”
(leggasi: non scientifica) di organizzare i dati raccolti, con ciò deviando dal
metodo e dalle finalità della ricerca:
“… quale motivazione psicologica degli sforzi compiuti da loro come da altri [i neurologi Pierre Marie e Friedrich Erlenmeyer], si percepisce chiaramente il bisogno di procurare al concetto di ‘paralisi cerebrale infantile’ un contenuto più valevole che non quello di un’etichetta clinica collettiva” (Freud, 1897, 167).
“Gli autori francesi in
particolare, nel loro bisogno di relazioni schematicamente semplici e di chiare
suddivisioni…” (Freud, 1897, 376).
La Selbstprüfung è dunque in sostanza un’esercizio per tentare di prevenire quei bias che sempre possono distorcere l’interpretazione dei dati e che originano dal desiderio irrazionale del ricercatore di dimostrare la propria ipotesi anziché di spingersi disinteressatamente verso la verità. E questo vale non solo per i dati scientifici, ma anche quelli analitici. Non a caso l’autoanalisi sarà consigliata da un Freud ormai maturo e padrone del proprio metodo come profilassi volta (anche) a evitare di inciampare nelle proprie aree psichiche cieche (gli “scotomi”, come li aveva definiti Wilhelm Stekel; Lualdi, 2015, 428) e di proiettare indebitamente contenuti mentali propri sul e nel paziente (Freud, 1912, 537) [14].
E
se ora torniamo al passaggio della lettera a Fließ da cui è partita la nostra
indagine sulla Selbstprüfung, coglieremo
chiaramente come sia proprio il fatto che Freud non vuole rinunciare alle sue
attese (probabilmente il desiderio di veder confermata la sua visione idealizzata
di Fließ quale insuperabile chirurgo nasale) a renderlo restìo a procedere con
il proprio autoesame. Non diversamente dunque da quanto avrebbe rimproverato
solo un paio d’anni più tardi a Marie, Erlenmeyer e a tutta una schiera di
altri neurologi, stava evitando l’autoesame per una “motivazione psicologica”.
Di
certo a Fließ non sarà sfuggito questo gioco allusivo. Più probabilmente il
berlinese non avrà colto che tale rinuncia di Freud alla Selbstprüfung implicava già allora qualche perplessità sul suo
valore professionale [15].
Considerazioni conclusive
Interrogando il fenomeno dell’autoanalisi di Freud si scopre che più si cerca di metterne a fuoco certe caratteristiche, più esse tendono paradossalmente a sfumare. Quantomeno è ciò risulta per l’interrogativo che ha mosso queste pagine: quando inizia l’autoanalisi di Freud? Siamo partiti dal 1897, per poi regredire al novembre 1896, poi ancora alla metà del 1895 e quindi al gennaio del 1895, con una lettera a Fließ che suggerisce un Freud già da tempo intento a una qualche forma di autoanalisi o meglio di autoesame: la Selbstprüfung.
Parallelamente
a ciò, seguendo la traccia filologica offerta da tale termine tedesco, è venuto
con nostra sorpresa sfumando un secondo aspetto, ossia la stretta connessione
tra l’autoanalisi di Freud e il metodo psicoanalitico in quanto tale. Nel senso
che le origini di questo procedimento di riflessione e monitoraggio di sé paiono
avere radici non tanto nel terreno di una psicoanalisi ancora molto acerba se
non addirittura di là da venire, quanto in una metodologia della ricerca scientifica
comprovata e di lunga data, volta a evitare il più possibile il fraintendimento
dei risultati ottenuti dall’applicazione di qualsiasi metodo di indagine in sé
e per sé ritenuto valido.
Questo
a sua volta ci ha consentito di cogliere le tracce di un esercizio di autoesame
già nel trentunenne Freud, alle prese nel 1887 con il suo primo importante lavoro
scientifico, destinato a rimanere incompiuto e inedito.
Se ha senso questa ricostruzione, allora possiamo procedere ancora oltre nel nostro percorso a ritroso alla ricerca del caput Nili dell’autoanalisi freudiana, raccordandoci alle riflessioni sul valore autoanalitico delle lettere di un Freud adolescente che nella prima metà degli anni ’70 scriveva all’amico Emil Fluss dando prova di notevoli abilità introspettive, come propongono Ilse Grubrich-Simitis (Grubrich-Simitis, 1973, 105) e, più recentemente e con maggior decisione, Marco Conci (Conci, 2016, 1074-6): ciò trova espressione specialmente nella nota “lettera della maturità”, sui cui passaggi in tal senso più significativi mi sono soffermato recentemente (Lualdi, 2021).
è
qui che l’indagine è costretta, almeno per ora, ad arrestarsi: la nostra
precisione termina infatti inesorabilmente nel momento in cui non abbiamo più documenti
che ci consentano ulteriori approfondimenti. Ma se da un lato abbiamo ricavato
il deludente risultato di non poter più identificare con l’allettante e
rassicurante precisione offerta da Jones il momento di avvio dell’autoanalisi
di Freud (sia esso il giugno/luglio 1897 o, con maggior puntualità, il 24
luglio 1895), dall’altro abbiamo acuito il nostro sguardo in quelle che paiono
esserne origini, ampliandone la portata concettuale e cogliendone i nessi con
l’ambiente culturale contemporaneo: essa si lega infatti a un preciso approccio
alla ricerca che trova illustre precedente in uno dei modelli di Freud, Goethe
e che viene inoltre ripreso da uno dei pochi autori da lui stimati quanto
all’indagine dei fenomeni onirici, Hildebrandt [16].
Questo punto di vista si pone in contrasto da un lato con la ricostruzione di
Alt, che raccorda l’autoanalisi freudiana alla tradizione romantica, più epica
che scientifica (Alt, 2016, 253) – ma forse il contrasto non è assoluto e le
due influenze possono coesistere – dall’altro alla posizione idealizzante di Gay,
secondo il quale Freud non avrebbe avuto nella sua impresa “precedenti né
maestri” (Gay, 1988, 89). Posizione per certi versi ancor più agiografica di
quella di Jones, che perlomeno cita una serie di illustri predecessori di Freud
(supra n. 1).
Inserire l’autoanalisi di Freud in un contesto culturale più ampio e ben precedente la nascita stessa della psicoanalisi porta anzitutto a pensare che non per falsa modestia, bensì con la consapevolezza di avere lavorato su se stesso secondo criteri diffusi negli ambienti scientifici del suo tempo, Freud stesso fosse incline a non valutare la sua impresa come qualcosa di particolarmente eccezionale, al punto da affermare nel 1909:
“Se mi si chiede in che modo si possa diventare psicoanalista, rispondo: attraverso lo studio dei propri sogni” (Freud, 1909, 151).
Affermazione che avrebbe poi stemperato, è vero, ma più con l’intento di segnalare l’insufficienza formativa dell’autoanalisi (Freud, 1935, 460; Gay, 1988, 88 e n. *) che non la sua impraticabilità di principio [17].
Anche
Gay mi pare avvicinarsi a un’ottica simile, benché da un lato non ne tragga le
dovute conseguenze e dall’altro si fondi su una considerazione con cui concordo
solo in parte. Egli fa notare che della propria autoanalisi Freud “[n]ella sua
ben nota Psicopatologia della vita
quotidiana… parla in termini modesti, e la chiama ‘autoosservazione’” (Gay,
1988, 88). Gay considera ciò una prova che Freud sa bene che una vera analisi
richiede necessariamente la presenza dell’Altro con cui creare l’irrinunciabile
transfert. Io ritengo invece, come detto, che questa modestia riveli il fatto
che Freud sa di essere ricorso a una pratica in sé non nuova né eccezionale per
un uomo di scienza del suo tempo, quella dell’autoesame. Il fatto che, come ci
segnala Gay, Freud definisca l’autoanalisi ricorrendo anche a un altro termine,
ossia “autoosservazione” (Selbstbeobachtung)
parrebbe confortare il nostro discorso, fondato appunto sulla possibilità di
trovare significanti altri da Selbstanalyse
per identificare l’autoanalisi. Non so per quale ragione Gay citi in proposito Psicopatologia, poiché lo stesso termine
ricorre abbondantemente già ne L’interpretazione
dei sogni, testo decisamente più legato al nostro tema. E anche qui Freud
impiega in parte il termine come chiaro sinonimo di “autoanalisi”. Spicca però un’occasione
in cui lo cita riportando una frase del filosofo Johann Gottlieb Fichte:
“Il carattere dei nostri sogni ci dà un’immagine dell’insieme delle nostre disposizioni assai più esatta di quella che potremmo ottenere da una prolungata autoosservazione durante la veglia” (in Freud, 1899, 75, corsivo mio)
In altre parole, siamo nuovamente in presenza di un termine e di una pratica già noti al tempo in cui ne scriveva Freud e di nuovo abbiamo la possibilità di ancorare la sua pratica autoanalitica a un preciso contesto culturale, anche se questa volta con un riferimento filosofico che va più in direzione dell’elemento romantico rilevato da Alt che non di quello scientifico sul quale mi sono soffermato io.
Tuttavia
– e qui cessa il mio accordo con Gay – dalla frase di Fichte si coglie anche
che l’autoosservazione è strumento insufficiente per l’indagine introspettiva.
E non a caso Freud lo impiega in altre occasioni per descrivere il contributo
dei pazienti al processo analitico: le libere associazioni sono in tal senso il
risultato, offerto all’analista, del processo di autoosservazione del paziente (ad
es.: Freud, 1899, 103, 105). Ad esse va però aggiunto qualcos’altro perché
possa completarsi il processo analitico. Per questo concordo solo in parte con
Gay: ritengo infatti che con “autoosservazione” Freud designi solo una prima
parte del processo analitico o autoanalitico, mentre mi pare che con
“autoesame” indichi l’autoanalisi nel suo complesso: l’osservazione e
l’elaborazione/interpretazione di quanto osservato.
In ogni caso, gli ampliamenti del concetto di autoanalisi offerti dai termini “autoesame” e “autoosservazione” contribuiscono a ridimensionare la visione di un’autoanalisi quale impresa senza precedenti, completamente avulsa dal suo periodo storico. Si stempera inoltre il paradosso di una pratica che crea i propri strumenti di indagine (ossia l’analisi stessa) mentre si svolge e che troppo somiglia a un inverosimile tentativo di voler sollevare in aria se stessi tirando verso l’alto la cinta dei propri pantaloni. Già Sulloway criticava l’idea che la psicoanalisi potesse essere considerata il frutto dell’autoanalisi di Freud (Sulloway 1979, 20, 228), considerando questa idea una mitizzazione storiografica con finalità volute e strategiche:
“Di legittimazione 1) del mito dell’eroe, 2) della psicoanalisi come scienza indipendente, 3) della metodologia unica della psicoanalisi e 4) delle analisi didattiche e di un’organizzazione di insegnamento chiusa come requisiti per a) la competenza psicoanalitica e b) il diritto di criticare proposizioni psicoanalitiche; di annichilazione del debito di Freud nei confronti della biologia e di altre fonti intellettuali” (Sulloway, 1979, 546, corsivo dell’autore; si vedano inoltre pp. 229 e 494).
E come accennato, anche la Roudinseco guarda all’autoanalisi con una certa perplessità e, se non parla di “mito” come Sulloway, fa ricorso al non meno significativo termine di “leggenda” (Roudinesco, 2014, 61, 66 n. 70).
Mi
pare però che per entrambi gli autori l’autoanalisi resti da intendersi come
applicazione su se stessi degli strumenti analitici. Ed è anzi proprio partendo
da questa definizione e dai paradossi che ne conseguono che viene messa in
discussione e ridotta a mito o leggenda. Ho cercato invece di delineare un
percorso diverso per dimostrare che se l’autoanalisi di Freud non può essere
considerata una semplice applicazione della psicoanalisi a se stessi, ciò non
significa automaticamente che vada ridotta al ruolo di mito o di leggenda: al
contrario, può trovare spessore e realtà proprio al di fuori dell’analisi,
nell’accostamento ad altre pratiche ben note agli uomini di scienza dell’epoca[18].
Se tutto
questo, con buona pace di Jones (e di Gay), rende Freud meno epicamente
erculeo, nulla toglie alla peculiarità della sua autoanalisi, peculiarità consistente
nell’aver ripiegato tale pratica su se stessa: non più dunque modalità e
strumento per valutare ciò che si scopre nelle proprie indagini scientifiche
rivolte ad altro (come per la meteorologia di Goethe), ma tecnica che sonda,
potremmo dire, la materia di cui l’autoanalisi stessa è fatta: i sogni e
l’anima umana.
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Online ai seguenti link: versione completa;
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[1] Per dare un’idea
del tono, val la pena riportare un estratto della prima pagina del capitolo: “…si tratta di un’impresa unica: una volta compiuta, è compiuta per sempre,
perché nessuno può essere di nuovo il primo ad esplorare quelle profondità. Nella
storia dell’umanità si è spesso affrontato questo problema. Filosofi e
scrittori, da Solone a Montaigne, da Giovenale a Schopenauer [sic, per refuso
dell’edizione italiana], avevano provato a seguire il consiglio dell’oracolo di
Delfi, ma tutti soccombettero allo sforzo. Ogni progresso era impedito dalle
resistenze interiori. C’erano stati ogni tanto sprazzi d’intuizione ad indicare
il cammino, che si erano però sempre estinti. Il regno dell’inconscio, la cui
esistenza era stata tante volte postulata, rimaneva oscuro ed erano ancora
valide le parole di Eraclito: «L’anima umana è una terra lontana che non può essere
né raggiunta né esplorata.» Freud non aveva nessuno che lo aiutasse o che almeno
lo assistesse minimamente nell’impresa. Peggio ancora: egli deve avere intuito
confusamente, per quanto cercasse di nasconderselo, che lo stesso movente che
lo spingeva ad andare avanti non poteva non turbare profondamente – fino forse
a troncarli - i suoi rapporti con l’unica persona alla quale era strettamente legato
e che aveva rafforzato il suo equilibrio mentale [Wilhelm Fließ]. Osava molto e
molto rischiava. Che indomito coraggio - intellettuale e morale – dev’essergli
occorso! Ne aveva a disposizione, però” (Jones, 1953a, 386, parentesi quadra
mia).
In
precedenza, nel 1940, Jones aveva scritto: “Copernico e Darwin furono molto audaci
nell’affrontare le verità sgradite della realtà esterna… ma affrontare quelle
della realtà interna costa uno sforzo che soltanto i più ineguagliabili fra i
mortali sarebbero in grado di sostenere senza aiuto”. Non dissimilmente, nel
1971, Kurt Eissler, altro fervente difensore dell’immagine eroica di Freud
(Lualdi, 2015, 12 e seg., 154 n. 196, 262 n. 376; Lualdi, 2020, 30 n. 40):
“l’autoanalisi è paragonabile, dal punto di vista del pericolo affrontato, al
lancio da parte di Benjamin Franklin di un aquilone durante un temporale nel
1752 allo scopo di investigare le leggi dell’elettricità. Le prime due persone
che cercarono di ripetere quell’esperimento dopo di lui rimasero entrambe
uccise” (citazioni da Sulloway, 1979, 19-20).
[2] L’errore l’ho
fatto invece io altrove, indicando l’oscillazione di Jones tra giugno e luglio
come relativa al 1895 e non al 1897! (Lualdi, 2020, 17 e n. 22).
[3] Si vedano le
perplessità di Gay (Gay, 1988, 89). Per parte sua Jones, chiudendo il capitolo
sull’autoanalisi, afferma: “…abbiamo indicato solo la data
dell’inizio dell’autoanalisi di Freud; la ragione è questa: Freud in persona mi
ha detto di non aver mai cessato di analizzarsi, dedicando a questo scopo l’ultima
mezz’ora della sua giornata” (Jones, 1953a, 395). Purtroppo questa dichiarazione,
che certo chiarisce cosa si debba intendere per sistematicità dell’autoanalisi,
pare applicabile solo a una fase molto tarda di essa, non agli anni intorno al
1897, come si evince dal racconto che ne fa Jones nelle pagine precedenti.
Ancora diverse, assai approssimative e prive di fonti sono le considerazioni di
Clark sul proseguire dell’autoanalisi: “L’auto-analisi di Freud continuò in
modi diversi [ma quali?] lungo tutto il corso della sua vita” (Clark, 1980,
175, parentesi quadra mia).
[4] Per qualche
oscura ragione, tuttavia, l’edizione inglese (e a ruota naturalmente quella italiana),
indica come anno non il 1899 ma il 1898. Al di là del puro calcolo matematico
(1956 + 43), credo che alludendo al 1899 Freud voglia riferirsi all’anno di
pubblicazione de L’interpretazione dei
sogni, testo in buona parte fondato sugli esiti dell’autoanalisi e dunque
del rivolgersi di Freud ai propri sogni e ai ricordi infantili.
[5] La versione
inglese, non meno letteralmente, rende con “Self-examination” (Freud, 1985c,
107).
[6] Mi
riservo di discutere più approfonditamente questa definizione assai
approssimativa in altro lavoro, attualmente in fase di preparazione e dal
provvisorio titolo L’altra metà di Freud.
[7] Si veda ad es.
Lualdi 2021, 16 e segg.
[8] Ticho,
per esempio, evidenzia come gli psicoanalisti contemporanei di Freud potessero
cogliere con molta più facilità dei successivi le analogie tra lo stile del
loro maestro e quello di Goethe (Ticho, 1986, 228).
[9] Mi
sbilancerei
a dire che stessa cosa è accaduta con la traduzione inglese.
[10] Scrive: “ohne auf
seine Quelle zu verweisen”, “senza fare riferimento alla propria fonte”.
[11] Per l’anno si
veda Goethe, 1834, 247.
[13] E che dire del
fatto che, poche pagine più avanti, dopo avere discusso il significato teorico
di un preciso reperto clinico anatomopatologico commenta, avvicinandosi vertiginosamente
alle note considerazioni di Bion sulla capacità di tollerare il dubbio (Bion,
1970, 59 e segg., 169-74): “Bisogna mantenere il dubbio nel
considerare questa atrofia come secondaria…” (Freud, 1887, 167).
[14] Sul rapporto di
Freud con Stekel in merito ai concetti di “scotoma” e di “scotomizzazione”
rimando a Lualdi, 2015, 456-8 n. 656. Sul concetto stekeliano di “scotomizzazione”
e sulle sue evoluzioni nel pensiero psicoanalitico si veda Lualdi, 2015, 460 n.
660.
[15] Interessante per
il nostro discorso è il fatto che si viene così a creare un nesso tra autoesame
e autoanalisi di Freud in quanto entrambi legati a quello che Jones definisce profondo
turbamento dei “suoi rapporti con l’unica persona alla quale era
strettamente legato e che aveva rafforzato il suo equilibrio mentale” (si veda supra, n. 1). Mentre però
Jones sottolinea il coraggio necessario a Freud per distanziarsi da Fließ,
questo episodio di inizio 1895 coglie un momento o una fase in cui tale
coraggio pare ancora vacillante.
[16] Stando così le
cose, diviene secondaria l’assenza di segni che coinvolgono direttamente la
parola “Selbstprüfung” alla pagina 55 della copia di Freud del saggio di
Hildebrandt. Questo, come il testo di Goethe, dimostra solo che Selbstprüfung era al tempo un termine
ben spendibile per indicare un certo lavoro su di sé (descensus in se ipsum) a fini conoscitivi, cosa difficilmente
Freud, uomo di cultura e di scienza, poteva ignorare.
[17] Jones non
tralascia questa presa di posizione di Freud rispetto all’autoanalisi, ma per
tutelare al meglio la sua visione epica del maestro commenta recisamente: “…ma
naturalmente non tutti sono un Freud”.
[18] Dunque
un’autoanalisi smitizzata e non più posta al servizio, come indica Sulloway, né
di una visione eroica di Freud né di una concezione della “psicoanalisi come
scienza indipendente”.
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